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La Vallée

Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su La Vallée

di Raffaele92
2 stelle

LA VALLEE Francia, 1972 – Barbet Schroeder Vi è una sorta di inspiegabile tendenza – da parte di certa critica così come di molto pubblico – a bollare come cult movie quasi ogni pellicola uscita tra la metà degli anni sessanta e i primi anni settanta che converga verso tematiche quali la psichedelia e la cultura hippie.

Nessuno ha il dubbio che “Easy Rider” (1969) e “Zabriskie Point” (1970) siano capolavori e che “Il serpente di fuoco” (1967), se non capolavoro, un cult movie lo è sul serio.

Se queste tre opere sono diventate così importanti nel panorama cinematografico mondiale in quanto rappresentative come più non si potrebbe della loro epoca è perché, al di sotto delle svariate tematiche che affrontano, celano quella più importante, il dispiegamento della quale li ha portati ad essere lucidissimi specchi della cultura che raffigurano: il concetto di moto.

Il movimento è la proiezione di sé assimilata da una generazione senza meta che compie un viaggio nel quale la meta non ha importanza. Non basta l’evasione dalla realtà, bisogna continuare ad andare, a spostarsi, a proseguire, senza timore per le conseguenze, senza rimpianto per ciò che ci si lascia alle spalle e senza paura per ciò che forse si troverà nel corso del tragitto.

Il film di Hopper e quello di Antonioni riescono a rendere narrativamente e visivamente il concetto di moto in maniera magistrale. Quanto al personaggio interpretato da Peter Fonda nel film di Corman, non sente forse anch’esso il bisogno di muoversi, aggirarsi e peregrinare in continuazione a seguito dell’assunzione di LSD? Ecco poi giungere questa sorta di alter-ego europeo dei tre film menzionati: “La vallée”. Ma in esso vi è un problema enorme, compromettente, imperdonabile: in tale ennesimo ritratto dell’epoca dei “figli dei fiori”, Schroeder sceglie invece la stasi, giungendo così a rinnegare gli assunti dei quali egli si fa portavoce nonché quello stesso fulcro che fu alimentatore (stando a quanto esplicato prima) dello spirito di suddetta generazione e di tutte le opere (cinematografiche e non) che da/tramite essa sono scaturite.

La stasi colpisce in primis i personaggi, la personalità dei quali non subisce evoluzioni né variazioni di alcun tipo durante il viaggio intrapreso. Trattasi poi di una stasi narrativa: il plot non progredisce, i protagonisti non si imbattono in situazioni né fanno incontri con/nei quali identificarsi.

Per dare al quadro una parvenza di completezza, il regista imbastisce a casaccio il film dei luoghi comuni propri di questo genere di pellicole: l’esperienza della droga, l’amore libero, il contatto con la natura e via elencando.

Così la stasi si riversa in un vuoto che ingloba tutto, che sopprime gli slanci vitali, che soffoca le alchimie, che avvolge un’opera già di per sé sterile.

La fuga dalla realtà volta alla ricerca di un utopico Eden è solo una delle pochissime banali tematiche alle quali il cineasta cerca invano di dare significato.

Quando poi il gruppo si imbatte nella tribù indigena dei Mapuga, ovverosia quando il contatto con altre culture si erge a tematica dai possibili interessanti sviluppi, ecco che Schroeder sceglie (o sembra scegliere, perché la vaghezza dei suoi intenti è una costante dell’opera) la parentesi documentaristica, soffocando il cinema e i contenuti dei quali quest’ultimo si sarebbe potuto far portavoce.

Il risultato complessivo è perfino peggiore di quello del precedente “More” (1969), pellicola speculare a quella in analisi in tutto e per tutto (in primis per i difetti).

Vi starete chiedendo che ruolo hanno i Pink Floyd in tutto questo: nessuno, se non quello di fugaci e opachi rumori di fondo.

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