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Rocky Balboa

Regia di Sylvester Stallone vedi scheda film

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La recensione su Rocky Balboa

di Eric Draven
8 stelle

 

di Stefano Falotico

 

Preso assai sotto gamba alla sua uscita, per di più snobbato e solo d’alcuni, in seguito allo “sfrenato” successo de I mercenari, un po’ rivalutato col senno di poi da chi si diverte tanto ad analizzare, appunto a posteriori, le carriere “cineastiche” degli attori. In questo caso, Sylvester Stallone che, invece, proprio dall’aver rimembrato di sua regia quest’ultimo capitolo della saga balboiana, pare che oggi viva una seconda giovinezza.

Rocky Balboa, il sesto e definitivo, appone il sigillo intoccabile su una serie fortunata, almeno a livello commerciale che però, dal “capitolo” due in poi, s’è adattata soltanto appunto al mercificare l’icona Sly. Col trascorrere degli “episodi”, il pugile proletario underground di Philadelphia, che incarnava l’impossibilità dell’american dream nel concretizzare miracolosamente il sogno invece avveratosi, viene progressivamente inglobato, anzi proprio “globalizzato” nei brutti canoni estetici dell’USA e getta (anche in senso di edonismo reaganiano degli States e della retorica demagogica “color” stelle e strisce) per, sì, esaltare la muscolosità sempre più plastica e “perfetta” di Stallone quanto a demolire proprio il suo originario capostipite. Rocky, infatti, subisce tanto un’evoluzione di popolarità quanto, nella ricerca di un facile populismo da cassetta e soldi facili, getta proprio qualitativamente la “spugna”. Il “vertice” dell’obbrobrio, della totale tumefazione del suo mito, la tocca con il quarto capitolo. Impostato e costruito in “stile” videoclip, come andava di moda allora, a “monumentalizzare” Stallone come paladino di tutti gli “eroi” palestrati ed edonisti partoriti dall’America più cretina. Lo sfidante è il colosso Dolph Lundgren, il titanico Ivan Drago, mister “Io ti spiezzo in due”. A sigillare l’oscenità di questa “pellicola”, assolutamente da cancellare, come se non bastasse, assistiamo nel finale addirittura ad uno Stallone che si auto-divinizza con un discorso “in diretta”, trasmesso a reti mondiali, in cui riceve addirittura l’applauso del sosia di Gorbaciov “in persona”.

Col quinto già riprendiamo le fila di un discorso sensato, più vicino all’etica del primo.
Anche perché, a dirigerlo, è appunto John G. Avildsen, autore dell’originale.

Tutti credono che la storia di Balboa finisca qui. Invece Stallone pesca dal cilindro la sua creatura migliore (non dimentichiamoci mai che a plasmarla e ri-crearla è stato sempre lui, scrivendosi addosso la sceneggiatura), e per magia genera quello che è un capolavoro.

Sì, lo posso dichiarare stavolta con l’innalzata e più orgogliosa bandiera battente profumo Cinema.
Chi è Rocky nel 2006? Sono passati molti anni, anche la sua amata “Adrianaaa!” è morta.

Rocky è un uomo solo, è ritornato a vivere fra la gente umile, fra i “vigliacchi”. E, alla sua bella età “suonata”, vivacchia sconsolato, rallegrandosi estemporaneamente nel rammemorare la sua gloria che fu. Ogni giorno, si reca al cimitero per porgere fiori sulla tomba del suo amore bigger than life.

L’unico vero amico che gli è rimasto davvero è il cognato Paulie. Il figlio (nel quinto era proprio il suo figlio reale, Sage, qui sostituito da Milo Ventimiglia) lo ripudia. Perché, nonostante suo padre sia il grande Rocky, a “virtù” proprio di tale ragione, vede in lui la persona che l’ha rovinato. Il figlio vuol fare carriera “normalmente”. Studia Economia, per lui suo padre è soltanto un bell’affetto da cui stare lontano. Perché lui vuole farcela coi “pugni” di chi si crea stima senza “macellarsi” sul ring.

Oggi, si vive nell’epoca del digitale. Il campione invincibile dei Pesi Massimi è Mason Dixon.

A qualche fottuto nostalgico del passato, grazie proprio alla CGI, vien la malsana idea allora di allestire un incontro “virtuale” fra quelli che gli addetti ai lavori considerano i migliori boxer di tutti i tempi, Rocky Balboa e il “nostro” Mason Dixon.

Secondo il suo “creatore”, il più forte è, e rimarrà sempre, Rocky Balboa.

Mason, da quel “semplice” filmato simil “Celebrity Deathmatch”, sarà talmente innervosito da andar su tutte le furie, urlando al suo agente che si sente umiliato, e da voler dimostrare al mondo intero che the greatest of all time è lui.  Il suo agente sorride, dicendogli di fregarsene di quello scherzetto “televisivo”. Mason se ne sta tranquillo ma c’è già un pezzo grosso dei media che ha pensato di sfruttare proprio questa “finta” provocazione per un vero reality show in cui Mason affronterà il “vecchio” Balboa. Vuole creare un evento a scopo di lucro, così, propone a Rocky la sfida (im)possibile. “Scende” sin nella “sporca” Philadelphia e lo incontra nel ristorante di cui Rocky è ora l’impresario, il “presidente onorario”. Rocky si siede al tavolo, omaggia l’approfittatore e inizialmente gli sussurra un “No, mille grazie, non sono più un ragazzino. Arrivederci”. Però, invece, la proposta lo alletta, è forse la scintilla per farlo sentire ancora vivo.
Perché Rocky non è solo un uomo che ha perso tutto un’altra volta, che aiuta la gente debole del quartiere a farsi valere con gli insegnamenti della sua “filosofia”, da esperto delle sconfitte, delle rinascite e delle “scalinate”, ma è un warrior che non si arrenderà mai. Uno che, nonostante mille e più batoste da cane sempre bastonato, soprattutto le ferite nell’anima, i dolori delle perdite, giù non va. No. Nell’impresa “disperata”, alla fine, riesce a convincere il figlio. All’inizio recalcitrante a fargli da “braccio destro” negli allenamenti, a sostenerlo nella “stupida” e folle voglia di essere per l’eternità Rocky Balboa.

Rocky infila i guanti, smaltisce i chili di troppo, si tonifica con tutti gli acciacchi del caso, ed è preparato, in forma per il combattimento epocale. Mason è giovane, è scattante, è indubbiamente favorito. Rocky ne prende tantissime e tante però ne dà. Crolla, si rialza, casca di nuovo e resiste sin all’ultimo gong, come accadeva nel primo.
Anche stavolta perderà ai punti. Solo ai punti.

Rocky ce l’ha fatta, anche se è un “perdente nato”. Ha vinto i suoi limiti. Li ha, per meglio dire, appunto “contenuti” e fatti esplodere nella sua forza vitale.
Il pubblico sa che non è lui il vincitore dell’incontro ma gli applausi sono tutti per lui. Prima di tornare nello spogliatoio, per la doccia calda, Sly/Rocky si volta quasi al ralenti. In quei 15 secondi immortali di flash, abbracci calorosi della gente, urla di giubilo ed entusiasmo “Rocky forever”, c’è tutta la sua sbagliata, giusta, vita da gancio sinistro.
Cala il sipario.

Rocky torna sulla tomba della moglie Adriana, le parla come se tutta la nostra esistenza fosse quella di fantasmi che devono soffrire, resuscitare e lottare per trovare la pace. Poi, si allontana. Titoli di coda.

La commozione è enorme.

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