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Il suo nome è Tsotsi

Regia di Gavin Hood vedi scheda film

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La recensione su Il suo nome è Tsotsi

di giancarlo visitilli
8 stelle

Da sempre la strada è metafora di vita e di morte. Oltre che di riscatto. Così avviene per il diciannovenne Tostsi (vuol dire ‘gangster’ nello slang delle comunità nere e dei ghetti del Sud Africa), un sottoproletario, che vive in un’immensa baraccopoli alla periferia di Johannesbourg e che ha rimosso tutta la parte della sua vita legata all’infanzia. Il giovane è un criminale brutale, cattivissimo, un gangster da quattro soldi, che rapina, spara, uccide senza pietà. Una notte dopo aver sottratto la macchina a una ricca signora si accorge di aver involontariamente rapito il figlioletto della sua vittima. Invece di restituire il pargolo, Tsotsi lo terrà con sé. Sarà proprio questa decisione a cambiare completamente la sua vita.
Il regista sudafricano, Hood, riprende e riadatta un romanzo di Athol Fugard, aggiudicandosi il meritatissimo Oscar come Miglior film straniero.
E’ un film sulla redenzione, ma senza sacri o profani redentori. Il regista, come per ognuno al quale può capitare tra le mani di ritrovarsi l’oggetto che fa ricordare la propria infanzia, fa vivere a Tsotsi l’esperienza del ricordo della propria infanzia, naturalmente si tratta di una disgraziata infanzia, usando come pretesto proprio un bambino rapito. Ma mentre a Tsotsi è stata rapita per sempre La fanciullezza, al piccolo rapito, alla fine gli sarà restituita.
Quasi a significazione di quanto non ci possa essere riscatto senza dolore nella periferia di Johannesbourg, la violenza è l’unica morale che accompagna la vita del protagonista del film, il cui pianto liberatorio, nel finale del film, sta lì a dimostrare quanto costa la rivincita e la rinascita a vita nuova. Parte integrante del film è la strada e le case in lamiera, i depositi abusivi di macchine rubate, i grossi tubi di cemento in cui i ragazzini cercano riparo, tutti debitamente posti alla periferia, non solo della grande città.
Costruito come un thriller, dalla regia solidissima e con un ritmo serrato grazie ad un montaggio velocissimo, scandito da un’ottima colonna sonora hip-hop, Il suo nome è Tutsi, eccelle anche per una fotografia, firmata da Lance Gewer, potente e molto articolata (gioco di focali, dolly e inquadrature studiate). Anche la straordinaria interpretazione del protagonista, Presley Chweneyagae, mostra la bravura del regista nella direzione degli attori.
Interessante in Hood anche la rappresentazione del mondo femminile e del suo prendersi cura dell’umanità, che non è solo priva di nutrimento, ma di sguardi, mani e quant’altro fa avvertire la presenza del calore tipicamente umano. Quel “non potrai mai sostituirti a sua madre” detto a Tsotsi, sta lì ad indicarci l’incommensurabile mancanza-presenza di una madre nella stessa vita del protagonista. Tant’è che, alla fine del film, Tsotsi sembra ritrovare egli stesso parte di quell’affetto materno di cui è stato lungamente privato.
Giancarlo Visitilli

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