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La terra

Regia di Sergio Rubini vedi scheda film

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La recensione su La terra

di spopola
6 stelle

“La Terra” è un film al quale deve essere riconosciuta una compatta solidità strutturale che ben evidenzia la positiva maturazione del regista e l’avvenuta, progressiva acquisizione di una tecnica narrativa professionalmente ineccepibile (e questa sua ottava pellicola rappresenta probabilmente la sua prova più compiuta, soprattutto sotto il profilo dello stile, anche se io continuo di gran lunga a preferire le imperfette “cadute”, le discontinuità e le “stecche” della sua generosa opera d’esordio, che mi aveva probabilmente fatto immaginare – o semplicemente sperare – in un percorso ben diverso da quello poi effettivamente intrapreso, spesso purtroppo discontinuo e ondivago non solo nelle scelte, ma anche nei risultati, fra sbandate rovinose e “fortunosi recuperi in corner”. Adesso, come il protagonista di questa sua ultima fatica in distribuzione sui nostri schermi proprio in questi giorni, Rubini, “recuperando” la propria genesi lontana (o meglio ancora “riappropriandosi della sua identità di origine”), sembra aver finalmente trovato proprio nelle contraddizioni e i “disturbi” di quella terra ostile e ingrata ai confini del mondo, l’humus necessario, la linfa attivamente fertile per una “ispirazione espositiva” maggiormente genuina e coerente (e anche un maggior equilibrio interno) che di film in film diventa più evidente e compiuta. Diciamo subito che io in questo caso mi riferisco più alla forma che ai contenuti, perché se la cornice è ben oliata e funzionale, quello che viene rappresentato all’interno lascia vaste zone d’ombra e molte punte di amaro, soprattutto verso la fine, con un epilogo buonista risolto a mio avviso un po’ troppo a “tarallucci e vino” (non sufficientemente desolata e desolante la metafora e il messaggio, e incapace per questo di farci avvertire lo sconfortante disagio di un’altra “storia” che si conclude con un ennesimo “delitto impunito” perché qui l’eliminato è così totalmente “stronzo” nella sua grettezza maligna, che non possiamo che partecipare “emotivamente” felici” alla accomodante soluzione propinataci che assolve e riconcilia quella improvvida saga di dissidi familiari in un ritrovato equilibrio da “vissero felici e contenti” e ci fa tornare a casa rasserenati e distesi). Pensato più col cervello che col cuore, “La terra” è un prodotto ambizioso e “furbetto” che scende un po’ troppo a patti con le convenzioni “virando” con eccessiva disinvoltura in molti snodi del racconto, verso la “piacevolezza” dell’impatto a scapito della “durezza” e della “cattiveria” che qui invece sarebbe stata particolarmente necessaria. E allora per favore, siamo onesti e obiettivi e non autarchicamente convergenti verso l’esaltazione pomposa di un prodotto “solo” discreto per il semplice fatto che è italiano e lasciamo stare “Fratelli” di Abel Ferrara evitando imbarazzanti confronti (solo le circostanze” del ricongiungimento di entità distanti e diverse ne rendono possibile l’accostamento, perché io davvero non riesco a trovare qui niente della materia magmaticamente infuocata, degli scavi psicologici cesellati con entomologica e penetrante perfezione di quella pellicola davvero esemplare). Siamo forse più dalle parti del film di Rosi, ma anche qui io ci andrei davvero cauto nel fare raffronti ravvicinati perché invece io avverto, al di là delle scoperte parentele formali con un certo cinema “americano” alla Coppola e alle atmosfere di molte pellicole western (da Zinneman a Leone) spesso richiamate con evidenza accentuata nel taglio delle immagini, nel montaggio delle inquadrature, nella scelta dei paesaggi e delle piazze, nella costruzione dei movimenti e dei “vuoti” all’interno dei singoli fotogrammi e nei segnali musicali molto Moriconeggianti, che ben sostengono le sequenze con la giusta atmosfera emotiva), un tentativo più diretto di “rifarsi” all’esperienza Germiana del dittico siciliano, purtroppo però senza una altrettanto corrispondente carica di caustico spirito critico, di deformazione istrionicamente “eccessiva” dei personaggi , qui non sufficientemente mostrificati dal trattamento paradossale dell’impatto. Rubini in effetti (se la mia ipotesi è esatta, rimane troppo in superficie, non ha il coraggio (o la capacità) per spingere davvero il pedale fino in fondo, e tutto resta sospeso, a mezz’aria, in superficie, in un insieme piacevole ma innocuo, che non ha il coraggio (o meglio non “vuole proprio” farlo) di scavare davvero fino in fondo, penetrando con la necessaria veemenza, nelle contraddizioni evidenti di un mondo che è ancora ancorato a tradizioni e archetipi di sudditanza e di acquiescenza spaventosi e sconcertanti. E allora ci si muove quasi incapaci di decidere il vero percorso che omogeneizzerebbe l’insieme, fra personaggi che virano verso il patetico (la Di Rauso e la polacca, deus ex macchina catartico degli avvenimenti e il breve “schizzo” del “diversamente abile”), il drammatico (un calibratissimo Bentivoglio davvero efficace e sobrio e un idealizzato, quasi dostoevskiano Briguglia), lo scontato (la Gerini - una volta tanto incolpevole per le deficienze oggettive che caratterizzano l’ingrato ruolo assegnatole, davvero troppo ovvio e risaputo, convenzionale e irrisolto – perfettamente calata nel personagigo che realizza per altro con adeguata partecipazione interiore; la famiglia del mafioso) o la deformazione “manierata” e sopra le righe che rischia di fermarsi alla macchietta per insufficienza di “carburante” propulsivo (Venturiello, Solfrizzi, e un inedito Rubini, che è forse quello che “osa” maggiormente e “tenta” di avvicinarsi al modello). Peccato, perché se Rubini avesse avuto il coraggio di rischiare fino in fondo, forse a mio avviso il risultato avrebbe potuto essere più altisonante e coinvolgente, i presupposti questa volta c’erano tutti. Così, come al solito, ci si accontenta invece di un prodotto medio una volta tanto “lussureggiante” e ben confezionato, costruito però su una sceneggiatura decisamente perfettibile che ne rappresenta il primo (ma non unico) grave difetto (un film che ha una struttura da thriller che lascia colpevolmente capire quasi subito chi dei quattro fratelli si assumerà la responsabilità dell’omicidio nonostante le false tracce i non sufficientemente fuorvianti differenziati indizi, la dice lunga sulle “inadempienze e le “concessioni”).

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