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North Country. Storia di Josey

Regia di Niki Caro vedi scheda film

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La recensione su North Country. Storia di Josey

di Aquilant
6 stelle

Quale filo conduttore lega insieme in un unico contesto “La ragazza delle balene” e questo “North country”, quinta opera in ordine cronologico dell’australiana Niki Caro, approdata in terra statunitense a dirigere un film con ambiziosità loachiane ma di gusto tipicamente hollywoodiano? Entrambi i racconti ci narrano le vicissitudini di due simpa(te)tiche eroine inserite loro malgrado nel posto sbagliato, colpevoli di aver spezzato la catena dei padri rispettivamente con la loro nascita e con la loro scelta di vita, ma determinate a portare avanti tra mille avversità le loro rivendicazioni, lottando contro ogni tipo di discriminazione nei confronti del sesso cosiddetto debole. Ma mentre nel film precedente il quadro generale faceva riferimento all’immobilismo di un popolo legato a tradizioni millenarie, nel caso presente la regista, anch’essa per la serie “Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sull’America ma non avete mai osato chiedere”, punta l’indice con estrema determinazione nei confronti di un certo tipo di maschilismo prevaricante, da tempo immemore in voga nel medesimo paese di Bengodi rivisitato di recente dal talentuoso Lars Von Trier, massimo conoscitore del tessuto socioculturale americano. Apprendiamo dei conseguenza che in virtù di una radicata tradizione di virilità tramandata dai padri fondatori del popolo a stelle e strisce non è possibile in nessun caso tollerare la presenza di esponenti del gentil sesso gomito a gomito con nerboruti minatori dalla scurrilità facile, afflitti da una sindrome di celodurismo acuto che travalica sotto ogni punto di vista quello padano, non ammettendo interlocutore alcuno, sindacalisti compresi.
Ma per spezzare una lancia anche a favore della controparte, tanto per mantenere vivo l’interesse nei confronti di un commento che rischia di perire per autocombustione a causa della palese ovvietà dell’argomento esposto nella presente pellicola, è opportuno osservare che la Caro, pur trattando la materia con una certa superficialità, ha probabilmente ben assimilato la lezioni di manipolazione giornalistica generosamente impartite da Michael Moore tramite i suoi due tonitruanti lungometraggi di recente memoria. In effetti la sua esponenziale versione di una realtà sociale resa tramite una martellante narrazione cronachistica a senso rigorosamente unico, se da una parte ci presenta la componente femminile quale vittima predestinata di una controparte maschile tratteggiata con un pressapochismo disarmante, dall'altra non fa altro che rincarare la dose. E ci ammannisce di conseguenza un quadro assai poco lusinghiero del cosiddetto sesso forte, esclusivamente dedito in ambiente lavorativo a ludici bagordi con intenti dichiaratamente vessatori a spese di un manipoletto di malcapitate suffragette post litteram, capitanate da un’autoreferenziale Charlize Theron, non propriamente a suo agio negli scomodi panni di una minatrice dedita allo sminamento di bordate maschiliste, che se ne impipa del termine “mobbing”, decisa a ribattere colpo su colpo alle vessatorie piccinerie sessofortistiche anche a costo di dar vita ad un finale sconsolatamente consolatorio (che fa rima con ricattatorio) a base di melassa, destinato a far rivoltare nella tomba Ken Loach da qui a cento anni, vale a dire al momento della sua dipartita, e probabilmente a provocare una smorfia di disgusto sul viso del beneamato Von Trier, che in quanto a darci dentro a tutto ciò che è a forma di stelle e strisce non si fa certo pregare tre volte, ma che resterebbe totalmente contrariato da un siffatto finale “andante con sentimento (materno)” che spinge eccessivamente sul pedale della commozione.
Ma scherzi a parte, c’è da credere in toto alla totale buona fede della regista, colpevole al limite di un tutt’altro che imperdonabile eccesso di cameratismo che sfocia in una specie di visione manicheistica e complottistica della realtà, con il non irreparabile torto di averci confezionato su misura una “storia di (stra)ordinaria prevaricazione”, non priva di sussulti adrenalinici e di una tensione di livello apprezzabile, in una discordante e velleitaria confezione lusso. Ma si sa, lustrini ed orpelli luccicanti mal si coniugano con il volto di una scialba e dimessa realtà e l’antinomia tra la scarnificante materia narrata e lo sguardo registico che in più d’una occasione si bea della contemplazione di un sentimentalismo di seconda mano fa sì che, così come nel caso delle “balene”, la ciambella femminista non sia riuscita completamente col buco.

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