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Senza destino. Fateless

Regia di Lajos Koltai vedi scheda film

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La recensione su Senza destino. Fateless

di giancarlo visitilli
8 stelle

Basterebbe la parola “orrore”, pronunciata alla maniera di Marlon Brando in Apocalipse Now, per commentare quest’ennesimo film, ma importante, sul genocidio degli Ebrei. Si tratta di Senza destino, opera prima del regista ungherese Koltai (uno dei più apprezzati direttori di fotografia del mondo: ha curato la fotografia di Mephisto, La leggenda del pianista sull'oceano, Malèna), tratto da uno straordinario romanzo, “Essere senza destino”, dell’ungherese, premio Nobel per la Letteratura 2002, Imre Kertész, chiamato anche a scrivere la sceneggiatura.
Tutta la storia è raccontata, e quindi vissuta in prima persona, dal quattordicenne Gyuri Koves, un ebreo di Budapest. Gyuri vive le sue giornate tra la nuova famiglia del padre e la casa delle madre. Un giorno, a causa delle infami leggi razziste del regime filonazista ungherese, il padre è chiamato al lavoro obbligatorio. Partirà e di lui si perderanno le tracce. Poi toccherà a Gyuri, che verrà deportato prima ad Auschwitz, poi a Buchenwald, e quindi in un piccolo campo di concentramento sperduto e durissimo. La sua esperienza sarà tragica, agghiacciante, ma poi, nonostante tutto, riuscirà a rimanere in vita. Ritornato a Budapest, troverà degli estranei a casa sua e non riuscirà più a comprendere la società che gli sta intorno. Il trauma della Shoah è stato catastrofico. Non gli resterà che camminare per le strade di Budapest, senza una meta.
Il film, pur peccando nel tempo (ma è possibile che i film debbano durare necessariamente tanto?), mostra, senza alcun ritegno la violenza inaudita, la perdita della dignità e la morte di chi ha vissuto quella tragedia. Lo fa attraverso la ripresa di corpi scarnificati dalla fame e dalle malattie, trasformatisi in una sorta di sacchi caricati sulle spalle di chi ancora ha qualche giorno in più di sopravvivenza.
Senza destino è un film duro, angoscioso, che non lascia molte speranze. La raffigurazione della vita nei campi trasmette allo spettatore con chiarezza l’idea della follia umana e della perversità delle farneticazioni naziste. Tanto che, il ritorno alla vita, alla fine della guerra, per Gyuri non sarà affatto confortante. Anzi, l’adolescente si trascinerà per le strade di Budapest, avvertendo quasi il peso degli stracci del lager, che porta ancora in dosso. Ormai tutto gli è estraneo, anche il luogo natio gli appare incapace di comunicargli qualsiasi cosa. L’odio è ciò che ormai impera e comanda. Un odio interiore, somatizzato che dà assuefazione e quel senso di vuoto: una condanna perenne.
A differenza di tanti altri film sull’Olocausto, Senza destino è un film di grande rilevanza poiché non tende ad evidenziare scenari consolatori: qui non esiste il bene che trionfa sul male, o la vincita del carrarmato. In esso la vita non è bella, ma è una ferita non rimarginabile, che si speri resti aperta nel ricordo delle generazioni future.
Interessante la direzione della fotografia di Gyula Pados, basata sui bianchi e i neri seppiati, colori spenti e tragicamente svuotati di sostanza estetica, che ben dipinge gli stati d’animo interiori dei personaggi. Anche il giovanissimo attore, Marcell Nagy, al suo secondo film, è già padrone di una recitazione misurata ed intensa.
Indelebili nello sguardo dello spettatore restano le scene durante le quali gruppi consistenti di ebrei, erano costretti a resistere in piedi, al freddo e di notte, cercando di non cadere. I più deboli, allo stremo delle forze, fanno una sorta di “danza dello sfinimento”, accompagnati dalla struggente musica di Ennio Morricone. Inevitabile lo smarrimento e la lacrima per chi è dall’altra parte del grande schermo. Sono i momenti di maggiore tensione emotiva, lontani un miglio dal buonismo che in genere riescono a passare i soliti film sull’Olocausto. Anzi, in Senza destino, vi è l’unica e sola verità che non dà scampo, per la quale, alla fine, dobbiamo ammettere che “Non ha senso prendersela con il destino”.
Giancarlo Visitilli

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