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I giorni del cielo

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su I giorni del cielo

di lussemburgo
8 stelle

Alla seconda regia (1978), l’ultima prima dell’esilio cinematografico terminato negli Anni 90, Malick ha già reso stabili e coerenti una precisa concezione di messinscena, con una narrazione veicolata fuori campo, da una voce partecipe, coinvolta ma dotata dell’onniscienza del racconto al passato, con attori seguiti da vicino, macchina in spalla, sorpresi in azioni senza manifesto contesto col tracciato della sceneggiatura, la libertà apparente dello sguardo che si posa con indifferenza sugli animali o sui corpi dei protagonisti. La fotografia di Nestros Almentros fissa nella bellezza memore di Hopper le inquadrature di un film crepuscolare, girato al tramonto e con luce quasi perennemente obliqua, sul finire della civiltà organizzata al confine con la natura grezza, onnipresente ed indifferente, come sempre in Malick.
Così come gli animali, gli insetti o i cambiamenti meteorologici si muovono e si trasformano per logiche estranee alle direttrici e intenzioni umane, così la macchina da presa sembra interessarsi distrattamente alle vicende che il film racconta, lasciandosi trascinare dal flusso delle stesse inquadrature, con la leggerezza di un montaggio emancipato da coordinate spaziali e temporali costanti e coercitive. Se solo con l’ultimo Albero della vita la libertà si fa digressione completa, diventa vagare sconsolato nel silenzio del divino alla ricerca dei suoi indelebili segnali e soltanto in parte il film si incarna in narrazione, nei Giorni del cielo il melodramma della vita agra sembra ancora poter prevalere, con l’ausilio dell’accompagnamento musicale di Morricone e degli sguardi spaesati dei protagonisti. Ma nelle parole che fondano e formano il racconto indirizzando il senso delle immagini, quei quesiti universali sul destino e sul divino, sulla vita e sull’attesa della morte si fanno già avanti, stratificate nella neutralità del tono che si affianca, a contrasto, alla voluta partecipazione emotiva delle riprese ravvicinate.

Il cinema di Malick rimane fortemente americano per l’imperterrita ricerca di un’innocenza perduta, di volta in volta indagata nel passato storico degli Stati Uniti (il Boom economico, la Depressione, la Guerra, la Conquista), infine guardata emergere e spegnersi con la vita stessa nell’elucubrazione cosmico-esistenziale dell’ultima opera. Forse quell’innocenza esiste, anche se non sembra alla portata degli esseri umani; ma quello che sembra pessimismo ontologico è, in realtà, un aspetto dell’affannosa ricerca di poesia a tutti i costi. Così, pur muovendosi in un ambito affine a 2001: Odissea nello Spazio, al sardonico sberleffo di Kubrick, per cui l’evoluzione dell’intelligenza nasceva dalla capacità di imporre la morte, l’Albero della vita di Malick tenta la via salvifica della speranza, nel riconoscimento della dignità di ogni forma di vita.

Ed è infatti la vita che prevale anche nei Giorni del cielo, il cui scorrere persiste al di là della tragedia che la invade, allontanando i protagonisti con la morte o con la separazione nella ricerca di un futuro, sebbene non necessariamente migliore ma comunque incombente, da qualche parte. Quella famiglia orizzontale, riunita all’inizio per affetto o interesse con veri o mentiti legami di fratellanza e di sesso, si sfalda nel tempo e nello spazio. Il resto, il mondo attorno e la società stessa, rimane indifferente mentre la macchina da presa sospende quei fili ancora tesi della narrazione.

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