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La tigre e la neve

Regia di Roberto Benigni vedi scheda film

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La recensione su La tigre e la neve

di scapigliato
8 stelle

Se un grande Re ha dei grandi gioielli li mette in mostra in raffinate vetrine. Se un collezionista di antiquariato ha preziosi mobili e quadri li espone in musei importanti. Benigni, in “La Tigre e la Neve”, mostra la sua preziosa anima poetica. In “Johnny Stecchino” e ne “Il Mostro” ci si piegava dalle risate; in “La Vita e Bella” si rideva più che piangeva; in “La Tigre e la Neve” la lacrima strappa la scena al riso e Benigni si rivela per la prima volta sullo schermo. Si mette a nudo, si spoglia letteralmente concedendoci un’interpretazione incredibile e inaspettata. Piange senza nascondersi, come il Clint Eastwood di “Million Dollar Baby” che tra l’altro è sentitamente ringraziato nei titoli di coda per la citazione de “Il Buono, il Brutto, il Cattivo”. Benigni fa della poesia, quella stessa poesia che ha seminato in ogni suo film, la protagonista centrale, e la piazza là, bella e storta, un po’ in bilico, sullo sfondo di una guerriglia irachena che verrà travolta dalla comicità, dalla surrealità delle scappatoie benigniane, o benignesche per farla più godereccia e toscanaccia. Il comico irrompe nel dramma, ma non lo prende a schiaffi. Benigni ribalta la realtà a suo favore non come scappatoia e rifugio dal dolore, ma come vera ed unica soluzione per una vita migliore. Negare la guerra è alla base per amare la vita. Negarla sì, far finta che non ci sia o che sia giusta, ne è l’esatto contrario. Lo capiamo dall’attenzione incredibile di Benigni-regista alla storia d’amore tra lui e Vittoria (la Braschi), e lo capiamo ogni volta che i “luoghi” cinematografici della guerra (posto di blocco, aiuti umanitari, bombardamenti e sparatorie) vengono usati solo come cornice per le travolgenti gag di cui Benigni-attore è protagonista. Tanto Fellini, c’è pure il circo, ma tanta poesia che per un esperto della materia è anche riconoscibilissima, ma per i profani diventa solo il viatico per interpretare il sogno di un film il cui fulcro portante è una tigre a spasso per Roma avvolta dai ciuffi di pioppo che sembrano fiocchi di neve. Il segmento più bello, per poesia di immagini e dialoghi è quello di Benigni e il cammello, mentre si ride e tanto nell’appartamento romano del protagonista e per tutto il secondo tempo: travolgente. L’attacco alla religiosità della guerra c’è e non va aggirato, ma è l’unico attacco possibile per sconfiggerla: ridicolizzarla. E così, dopo un italiano che prega Allah con il Padre Nostro, segnale chiarissimo e senza mezzi termini di comunione, Benigni ancora una volta ci ha graziato con il racconto comico e sognante della vita, che è la vera poesia da raccontare fin che abbiamo fiato, quell’ebete vita, per dirla alla Arrigo Boito, scapigliato, “...l’ebete vita che ci innamora, lenta che pare un secolo, breve che pare un’ora”.

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