Regia di Takashi Miike vedi scheda film
I bassifondi di Tokyo sono sede di una triste e variopinta follia, umida di pianto ed imbevuta di vari liquidi organici. Sono un calderone gorgogliante, in cui confluiscono i più cupi appetiti, dando vita ad un teatro nel quale la depravazione è affidata in parte alla fantasia e all’ingegno, ed in buona parte al caso. Nell’impero del Sol Levante esiste un mondo che rifugge la luce del giorno: tra i suoi abitanti ci sono prostitute ladre, spacciatori di toluene ed immigrati cinesi pentiti, e con la fedina penale troppo sporca per poter ottenere legalmente un passaporto. Queste vittime di sogni mancati costituiscono il popolino di una criminalità disorganizzata, sprovvista di una vera gerarchia: i suoi membri sono soltanto avventurieri dalle alterne fortune, eroi negativi di un sistema basato sulle occasioni da cogliere al volo, in cui il ruolo del comando spetta ai più ricchi ed ai più furbi. Le strutture della yakuza sono lontane da questo microcosmo informe, la cui geometria è quella labirintica dei vicoli degli antichi quartieri dei divertimenti, dei mostri di cemento armato rimasti incompiuti, delle esistenze inscatolate in ambienti angusti, in cui il rancore, le incomprensioni e la volgarità si addensano fino ad esplodere. Dove la pressione è tanta e l’aria respirabile poca, la violenza scoppia come l’unica, naturale forma di evasione. L’obiettivo di Takashi Miike riesce a concentrarla dentro i contorni frastagliati e ristretti delle inquadrature, incastrandola sotto un cumulo di automobili da rottamare, in mezzo ai tavoli e le sedie di una trattoria a conduzione familiare, e perfino all’interno delle cavità corporee. In quel dedalo che soffoca e disorienta, Ryuichi ed i suoi compagni si muovono alla cieca, sbattendo continuamente contro ostacoli che li costringono, infinite volte, a cambiare strada. La penombra in cui sono immersi è la stessa delle camere oscure, delle sale di montaggio, delle veglie funebri e dei riti esoterici, dove la realtà è rappresentata, fugacemente, in un momento di passaggio, nell’attesa che ne venga finalmente ricostruito il volto offuscato dall’incertezza. I bagliori rossi, gialli, blu tingono l’atmosfera dei toni incandescenti di una crudele attesa, come quella che tiene in ostaggio una gioventù ridotta a crepuscolo di un fosco domani. È una gioventù bruciata che non si consuma in un lampo, con una brusca fiammata di incoscienza, bensì continua a bruciare, a fuoco lento, con la luminosità puntiforme della brace accesa, crepitando flebilmente nel buio, senza provocare fragore. Le strisce di erba a cui si riferisce il titolo internazionale sono sentieri poco calpestati, il cui punto di arrivo è sconosciuto; o forse sono frange di terra messe a maggese, che segnano le linee di confine tra i campi fertili e le zone improduttive, esaurite, troppo sfruttate per poter accogliere e fare germogliare nuovi semi. Il Giappone ritratto in questo film è un luogo inospitale, sul quale il miracolo economico è passato come un rastrello, rimescolando i ruoli sociali e facendo emergere, dal nulla, nuove figure prive di radici culturali, destinate a declinare alla prima incrinatura del fragile sistema fondato sul benessere. Il futuro prende il via dalla sopravvivenza alla macelleria del mors tua vita mea: e dunque resistere, e continuare ad esserci, pur nella totale assenza di prospettive, significa già aver vinto tutta la posta in palio.
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