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Guardia costiera

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Guardia costiera

di ed wood
8 stelle

“Guardia costiera” è uno di quei film che dimostra come sia possibile far coesistere la denuncia politica e la coerenza con la propria poetica. Kim prende di mira l’aberrante logica militare, l’assurdità di un Paese diviso da una cortina, la follia criminale di un intero sistema gerarchico e fallocentrico senza per questo rinunciare ai suoi tipici espedienti poetici, anzi servendosene per la causa. Non è quindi un film “necessario” senza che aggiunga nulla al cine-percorso del nostro, ma un ulteriore tassello di sviluppo di un discorso filmico dai tratti inconfondibili. Sulla scorta di un premeditato irrealismo (o meglio di quel falso realismo su cui Kim ha fondato tutti i suoi film) e di quella peculiare cifra visionaria con cui altera la percezione della realtà senza per questo ricorrere ad escamotage onirici o a simbolismi pacchiani, Kim espone il suo sconnesso ed allucinato pamphlet anti-militarista. L’esercito coreano viene denunciato, messo alla berlina, smascherato, insozzato, lacerato al suo interno di una pulsione autodistruttiva, per mezzo di una doppia presenza fantasmatica: il soldato Kang, novello colonnello Kurtz in preda alla pura follia dopo aver ucciso un civile, e la fidanzata della sua vittima, a sua volta impazzita per il lutto al punto da regredire a bambina dispettosa ed ingestibile. La ricchezza semantica, non sempre governata, del film risiede nel complesso gioco di sponde e riflessi fra la dimensione reale dei soldati (e dello spettatore) e quella allucinata di Kang e della ragazza, percepiti come fantasmi, visioni del proprio subconscio secondo traiettorie intricate (la ragazza si presenta come una allucinazione, prima per lo spettatore, poi per il fratello, poi per Kang, infine per i soldati; a sua volta la follia di Kang assume via via contorni sempre più visionari). Kim altera la consistenza dell’immagine con espedienti classici quali sfocature, sdoppiamenti, ondeggiamenti (ancora il tema kim-iano dello specchio d’acqua) e un utilizzo allusivo del “fuori-campo”: a mano a mano che il film procede, la “realtà” filmica si fa sempre più sconnessa, caotica, delirante, fino alla moltiplicazione dei finali in uno smarrimento di senso forse anche eccessivo. Al di là di certe scorie nella gestione dei tempi e nello sviluppo delle dinamiche psico-patologiche, specie fra i due “pazzi”, “Guardia costiera” colpisce il doppio bersaglio della denuncia e della fascinazione poetica, trovando un punto di convergenza in quell’umanesimo sconcertante e spregiudicato, sempre al massimo ella perversione come della tenerezza, che caratterizza forse il maggior traguardo morale dell’autore coreano. Quando la ragazza scambia Kang per il suo fidanzato trucidato e quando Kang viene preso a calci dagli amici della vittima, si avverte la radicale pietà del regista: tanto che, quando nella seconda parte, lo stesso Kang passa da colpevole ad una specie di giustiziere del sistema che l’ha reso un assassino si è indotti a tifare per lui. E’ una delle più originali espiazioni che si siano viste al cinema: è l’assassino che vendica la sua stessa vittima! E tutte le volte che la ragazza compare a mettere imbarazzo e scompiglio (ossia dolcezza e bellezza) fra i volti imbruttiti dei soldati, è semplicemente grande poesia. Ma c’è una scena, un semplice controcampo, che racchiude la struggente poli-semanticità del cinema di Kim: la ragazza ruba una torcia ad un soldato e scappa, lui la raggiunge, lei si gira e illumina il volto del soldato (trasparente metafora di un cinema che vuole smascherare il vero volto dell’esercito), dopodiché è lui ad illuminare lei, prima il volto poi il giovane corpo (la ragazza-bambina è anche un inconsapevole corpo da desiderare e violare a piacimento, ennesimo privilegio concesso ad una Istituzione immune da ogni delitto). 

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