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Hotel Rwanda

Regia di Terry George vedi scheda film

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La recensione su Hotel Rwanda

di giancarlo visitilli
8 stelle

All’inizio: lo schermo nero. Nero come gli scarafaggi. Nero come i Tutzi. Il regista irlandese, Terry George, si fa testimone di una delle più grandi carneficine della storia contemporanea: quella avvenuta nel Rwanda a metà degli anni ’90. Sceneggiatore, produttore e già regista di Una scelta d’amore, George racconta a mo’ di cronaca il conflitto che dal 1994 impera nel paese africano e che vede schierati due opposte fazioni: gli Hutu e i Tutzi. In quello stesso anno un aereo, con a bordo il presidente Habyarimana, esplode. L’evento sembra assumere i contorni di un attentato, dando origine ad un enorme genocidio: gli Hutu iniziano a massacrare i Tutzi, li cercano, li stanano, li uccidono, sotto gli occhi dell’Onu, “che è lì per mantenere la pace, non per ristabilirla”.
Il regista si sofferma, in modo particolare, sulla storia di Paul, gestore di un grande albergo, che cerca di salvare più vite possibili, rifugiando più di mille persone all’interno della struttura. Paul è hutu, mentre sua moglie è tutsi, la sua missione è la stessa di Ghandi, ma nell’Africa Nera. La sua è una famiglia felice e serena. Quando però inizieranno i massacri dei tutsi ad opera di milizie hutu, sostenute dall’esercito, la loro esistenza sarà sconvolta. Sarà difficile la sua lotta, di gran lunga più pericolosa, rispetto a quella delle truppe americane chiamate ad evacuare dalla zona turisti e americani, a patto che durante il loro lavoro vi siano almeno le telecamere “delle tv che contano”, capaci di (non) raccontare al mondo la verità, tranne quella che sta dalla parte di chi è solito dire bugie. George è bravo perché nella sua narrazione non c’è posto per la retorica: il conflitto passa attraverso l’immaginario di Paul, e l’hotel in cui si svolgono le vicende diventa il simbolo di una resistenza nei confronti dei soprusi, ma anche dell’impotenza di fronte alla macchina dei soccorsi.
Come non pensare a Calipari e alla Sgrena, in occasione di questo film? All’abilità del sapiente regista di saper raccontare una storia vecchia ormai dieci anni e per la prima volta udita dai nostri orecchi? George, in questo film, si fa miglior maestro di geografia, quella vera che racconta la storia dei popoli (a discapito di quella insegnata e voluta da tutte riforme scolastiche del mondo, compresa la stessa della signora Moratti). In Rwanda, piccolo Stato africano senza particolari ricchezze, in cui il 60% vive sotto la soglia di povertà, il 51% muore di AIDS e l’età media è quella di un nostro calciatore miliardario, combattuto se lasciare o continuare a sgambettare a causa di scontri etnici, ci son stati un milione di morti e due milioni di profughi. Ad essere uccisi in maniera feroce e indicibile furono i tutsi, per lo più donne e tantissimi bambini, per mano di milizie hutu, appoggiate da un esercito di levatura europea. Un vero e proprio genocidio, pari a quello di quest’ultimo anno nel Darfur. Ma queste terre, entrambe, non sono collocate in zone strategiche, non hanno il petrolio, perciò l’opinione pubblica internazionale ha dimenticato in fretta, gli enti internazionali non si agitano in maniera particolare, la stampa di tutte le tendenze si occupa di altro.
Dobbiamo perciò aspettare occasioni come il Festival di Sanremo per parlare del Darfur o il vero cinema, quello ancora capace di raccontare dal vero: è il caso di Hotel Randa, un lungometraggio più che significativo e importante, che mette in luce ancora oggi quanto sia ipocrita l’Occidente e quanto cerchi di rimuovere le ignominie di un colonialismo che ha determinato in alcuni paesi situazioni sociali pesantissime. E qui si riscontra anche la magistrale bravura di un maestro di geo-politica, che, pur non abbandonandosi alle grandi prestazioni registiche, (poche invenzioni, molte scene di impianto più che classico, un uso della musica decisamente tradizionale), si è giocato per mettere in gioco le stesse emozioni che hanno sicuramente suggerito e guidato la riuscita di questo bel film, che ha tutto il sapore di uno “Schindler africano”.
Candidato a tre Oscar, ‘giustamente’ questo film non s’è aggiudicato nessun premio, sicuramente il pubblico in sala, in questi giorni, ne sta decretando la vittoria (attraverso la semplice visione), di gran lunga migliore, rispetto al semplice ottenimento del leone, d’oro, d’argento o di celluloide.
Giancarlo Visitilli

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