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Nemmeno il destino

Regia di Daniele Gaglianone vedi scheda film

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La recensione su Nemmeno il destino

di tizbel
8 stelle

Con questa sua seconda prova cinematografica, Gaglianone non realizza semplicemente un film di tipo “generazionale”, ma realizza piuttosto un film sul “substrato sociale” del genere umano: è vero che vengono mostrate principalmente le storie di tre ragazzi appartenenti ad un’attuale “generazione” di adolescenti, coi loro problemi di casa e di scuola, ma queste storie costituiscono, per questo film, solo il mezzo per mostrare un contesto umano più ampio che forma appunto il “substrato” di cui si sta parlando. E’ chiaro che per raccontare di questa “materia umana” non è stato messo in scena un “eccesso di storie”, come aveva fatto Francesco Patierno in “Pater Familias”, che peraltro si accosta molto a “Nemmeno il destino”, ma sono state scelte le sciagurate vite di (soli) tre amici che vivono a Torino: Ferdi, Alessandro e Toni. Esse sono più che sufficienti a dare quelle “emozioni forti” che “Pater Familias” stentava a dare, anche perché in quel film era stato proposto un inutile “puzzle di frammenti diegetici”. Non che Gaglianone non sia stato immune dallo scivolare “autorialmente” in questa direzione, ma ha fatto un lavoro diverso da Patierno: non ha utilizzato il “frammento diegetico” in “previsione di ciò che accadrà”, tanto che lo spettatore attento annusa subito la “prevedibilità” degli eventi che stanno per essere mostrati, ma ha utilizzato (senza eccedere) i “frammenti diegetici” a “completamento” degli eventi mostrati in precedenza. Non che Gaglianone, qui, non abbia fatto dello “sperimentalismo”, soprattutto mediante l’utilizzo di una fotografia sovraesposta, senza rinunciare inoltre ad una pista sonora piuttosto elaborata, come aveva già fatto ne “I nostri anni”, ma qui c’è una dichiarata ricerca di una “dimensione onirica” (intervista di Emiliano Morreale a Gaglianone, Film TV n.46, Anno 12) e, al limite, potremmo aggiungere, di una “dimensione dell’irrealtà”. Come a dire che le storie mostrate in questo film sono così al di fuori di un “senso comune” da rendere impossibile il credere che possano esistere veramente e pertanto dovevano essere rappresentate nella maniera con cui Gaglianone ce le ha proposte. Eppure esse sono così e non è neanche difficile crederci. E se, per nostra fortuna, quelle tragedie non le abbiamo vissute in prima persona, ci basta dare uno sguardo nel film a quei “palazzoni” della metropoli torinese, tutti uguali, come ne esistono in tanti altri posti, per vedere tanti “loculi abitativi”: un “cimitero dello spirito” più che del corpo, naturalmente; luogo dove si consumano tanti drammi familiari, che si trasformano, di conseguenza, in tanti drammi sociali. E’ lì che si colloca il “substrato sociale”, da cui emergere, per molti, è piuttosto difficile se non impossibile. E’ lì che la società del benessere, a vari livelli, si poggia. Dov’è finita allora la nostra coscienza? Ma ancora di più, dov’è finita la nostra coscienza civile? Quando per il proprio benessere sessuale si gode del piacere di possedere una donna, “schiava” della necessità di far crescere un bambino (Alessandro) in condizioni precarie; quando per il proprio benessere economico si fa schiattare negli ambienti malsani di una fabbrica altri esseri umani, senza essersi curati delle loro condizioni di salute. Sarà forse retorica, la mia, ma cosa c’è in questo film di più poetico, e drammatico allo stesso tempo, di un bambino (Alessandro da piccolo) disteso sul letto mentre sente i bestiali gemiti della madre venire dall’altra stanza e mentre fissa un mappamondo illuminato, che sta lì quasi a preannunciare che l’unica “luce” del suo mondo è solo ed esclusivamente quella? Ripeto, sarà retorica, la mia, ma ringraziamo tutti insieme Daniele Gaglianone per questa immagine di una poetica e di un’intensità emotiva straordinaria. Alla fine, i tre protagonisti di questo film diventano oggetto di tre cupi drammi, dove resta poco spazio per l’istruzione scolastica, poco spazio per il divertimento, a parte un bagno nel fiume e attaccarsi ad un bottiglione di vino. Non una bottiglia con l’etichetta od una bottiglia di plastica, molto comune nelle sbronze di massa tra giovani, ma un bottiglione di vino, quello da due litri, di colore verde: un dettaglio “minuscolo” forse, ma importante; in fondo, è proprio quella la sua “naturale dimensione” che corrisponde perfettamente, in questa rappresentazione cinematografica, all’unico e striminzito elemento in grado di richiamare una tavola domestica, intorno alla quale potrebbe sedersi un “padre normale”, una “madre normale” e dei “figli normali”, non necessariamente benestanti: insomma una “famiglia normale” a cui questi ragazzi non appartengono. Nonostante qualche probabile incertezza nel montaggio, Daniele Gaglianone sa regalarci, alla fine, quasi due ore, intensissime, di buon cinema, avendo anche il gusto di inserire dei “momenti cinefili”. Come si fa allora a non pensare alle rappresentazioni di Tarkovskij quando vediamo il padre di Ferdi vagare in una specie di fabbrica abbandonata dove l’ “elemento acqua” compare? Come si fa a non pensare un po’ anche ai fratelli Dardenne quando in alternanza ad una camera più stabile viene utilizzata una camera più tormentata che è “umanamente” più prossima ad una dato soggetto? E cosa possiamo dire sul momento in cui Alessandro fissa il lago che tanto assomiglia al finale di “Sweet sixteen” di Ken Loach, il quale, a sua volta, richiamava il finale de “I quattrocento colpi” di Truffaut? Ci lascia, alla fine, anche Gaglianone una speranza che almeno per Alessandro le cose andranno meglio? Il sorriso di Alessandro, molto simile a quello che Ferdi mostra prima di buttarsi con il motorino dal tetto del palazzo, e la sequenza finale del suo incontro con la madre, uscita di senno, mostrata in bianco e nero, quasi ad isolarsi dal resto della pellicola, sono elementi che inducono a pensare che anche la sua storia è forse già finita male. Come a rivelare, e qui concludo, che Gaglianone ci lascia una qualche speranza nonostante le cose per Alessandro possano essere andate veramente male. Ma questa resta solo una mia ipotesi.

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