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Il silenzio tra due pensieri

Regia di Babak Payami vedi scheda film

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La recensione su Il silenzio tra due pensieri

di lostraniero
6 stelle

“Ogni cosa è segno del destino. Quale destino stiamo seguendo?”. L’occhio della storia (della Storia) è sul volto nascosto dell’esecutore; e lì resta fisso. Silenzio, fucile, silenzio, fucile, silenzio. E’ poi l’improvviso irrompere della legge, di una legge qualsiasi e sconosciuta, a fermare il terzo colpo d’arma. All’inizio di questo complesso film del regista iraniano c’è bisogno del dubbio del diritto, di un inferno evocato e che potrebbe non inghiottire una nuova vittima, perché i nostri occhi ora vedano. Si girino con la macchina da presa e finalmente ci svelino l’umanità di una condannata; prima il suo corpo, sindone immobile al muro sacrificale, poi pian piano si vorrà mostrare volto, occhi, rabbia e attesa.  Un corpo di una bellezza primordiale che appare vicino alle pareti, dentro gli anfratti della pietra di prigione, già quasi consegnata alla terra. Seme inutile. Lì tanto sono tutte terre morte. Verrà una grande tempesta, evoca ancora una bambina piangente alla porta, che si porterà via tutto e tutti; gatto nero, e pesci ed asini, e uomini. Tutto. Eppure quella terra è facile che le dita provino a grattarla. L’esecutore e la condannata scavano lo stesso identico destino dalle due parti opposte di alcune inquadrature. La terra li divide, ed è terra morta. Chi è prigioniero non appartiene, semplicemente attende il suo destino. Nessuno dei due appartiene ai lupi che hanno le chiavi dei pollai, che scrutano nel nulla del deserto per non prendere atto di ciò che avviene attorno a loro. Alle donne si vieta il pellegrinaggio ed il pellegrinaggio invece viene fatto, e la sposa improvvisamente appare come libera con in mano frumento e pietre. Perché questo Babak Payami vuol farci considerare; davanti al deserto delle scelte gli uomini hanno quasi sempre tra le dita bossoli vuoti e zollette di candido zucchero, mentre grano e piccoli sassi stringono nella loro fierezza le loro donne. La mente è un fucile. Il cuore invece, sabbia che accoglie. Ci si avvia verso il finale. Silenzio, fucile, silenzio. Ancora una volta. E la condannata è nuovamente davanti al suo boia. Stavolta la storia (la Storia) vede lei sola. “La sentenza emessa non si ritira, la parola data è legge” come si era detto molto prima, quando forse pensavamo che avremmo assistito ad un film che lasciava posto ad una certa ‘leggerezza’  d’analisi (come nel precedente “Il voto è segreto”). Qui, invece, c’è un lavoro ieratico, irredento che offre molti sprazzi di grande poesia cinematografica ma che a volte soffre di troppa pressione ideologica, di un costante bisogno di porre lo spettatore davanti ad una eterna, pesante ed irrisolta ‘siccità morale’. Film complesso si diceva, ma non per questo non meritevole di attenzione. Film travagliato, frutto della solidale complicità (Panahi e Rahimi tentano un montaggio filologico nonostante sequestri e ostracismi vari) di chi all’irrompere di una legge censoria nella vita dell’arte , una legge qualsiasi e sconosciuta, cerca di muovere il nostro sguardo perché all’arte stessa venga data ancora la luce della visione, il poco pane e ciò che le serve per vivere. Ogni film è un piccolo destino e noi quale film stiamo seguendo? Quello del pensiero dell’atto (sparare-morire) o quello del silenzio dell’attesa (chiedere-vivere)?

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