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Città portuale

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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FABIO1971

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Città portuale

di FABIO1971
6 stelle

"Città portuale non era affatto una storia eccezionale. Per me si trattava di tirare fuori, in modo pulito, dal grande materiale di Olle Länsberg, un racconto adatto per un film. Senza rendercene conto, avevamo già iniziato con le riprese e, sotto il forte influsso di Rossellini e del neorealismo italiano, cercai di lavorare il più possibile in esterni".
[Ingmar Bergman - Immagini - Garzanti, 1992]

"Pensavo che sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Ora che so che cos'è la felicità, la vita non potrà che peggiorare".
[Bengt Eklund a Nine-Christine Jönsson]


Gösta (Bengt Eklund), marinaio svedese di ritorno in patria dopo essersi imbarcato per otto anni (anche qui dall'India, come in La terra del desiderio), ha trovato lavoro al porto della città. Appena arrivato, ha assistito al tentativo, fallito, di suicidio di una ragazza, Berit (Nine-Christine Jönsson), che qualche sera più tardi incontrerà nuovamente in un locale. Dopo aver trascorso la notte insieme, promettono di rivedersi: Berit, però, nasconde un passato ingombrante, dal riformatorio a certe amicizie da cui fatica ancora a liberarsi. Figlia di un ufficiale di marina sempre assente per servizio, vive con una madre (Berta Hall) rigida e oppressiva e sotto lo stretto controllo della signora Villander (Birgitta Valberg), la sua assistente sociale. La vita, però, dopo l'infanzia tribolata, tre anni di riformatorio, una sfortunata esperienza sentimentale e il tentato suicidio, sembrerebbe iniziare a sorriderle: durante un romantico fine settimana in hotel con Gösta per festeggiare il proprio compleanno, infatti, si scopre finalmente felice e innamorata, tanto da convincersi a superare definitivamente le proprie paure rivelando a Gösta le drammatiche esperienze del proprio passato. L'incanto, però, si spezza e l'amore di Gösta, tormentato dalla gelosia, vacilla: abbandona Berit proprio quando rischia di tornare in riformatorio a causa della morte della sua amica Gertrud (Mimi Nelson), uccisa da un aborto clandestino, ma poi, divorato dal rimorso ("Maledetta sia la coscienza!"), torna da lei per coronare i loro sogni e iniziare una nuova vita insieme.

Tratto dal romanzo Guldet och murarna di Olle Länsberg, il cui manoscritto venne venduto nel febbraio del 1948 alla Svensk Filmindustri in cambio della partecipazione alla stesura della sceneggiatura, a cui collaborò anche lo stesso Bergman, prodotto da Harald Molander (lo stesso che partecipò alla realizzazione di Crisi, il film d'esordio del regista), Città portuale (Hamnstad in originale), per stessa ammissione dell'autore, avrebbe dovuto mostrare, per approccio, tematiche affrontate e scelte stilistiche della messinscena, l'evidente influenza del neorealismo rosselliniano: al di là delle sequenze con i braccianti portuali al lavoro, ritratti nelle loro febbrili attività quotidiane, e di qualche suggestivo scorcio cittadino catturato a Göteborg, però, buona parte (decisamente troppa, si lamentò Bergman) del film venne girata prevalentemente in interni negli studios di Råsunda, con una macchina da presa interessata anche all'esplorazione intimistica dei sentimenti - servendosi di parentesi idilliache per far divampare amore e passione nei cuori dei suoi protagonisti - e all'analisi psicologica piuttosto che alla rappresentazione esclusivamente realistica delle miserie e delle ingiustizie in cui si dibattono i protagonisti della vicenda. Il risultato, pur con qualche eccesso didascalico, è un'opera più compiuta e matura delle precedenti, incorniciata suggestivamente dalla magnifica fotografia di Gunnar Fischer, alla prima collaborazione con il regista (il loro straordinario sodalizio artistico si interromperà con L'occhio del diavolo nel 1960) e interpretata con convincente ispirazione dalla coppia di giovani protagonisti.

Le ragioni della riuscita di Città portuale vanno senz'altro ricercate nella ripresa, opportunamente rielaborata, dei temi-cardine della poetica cinematografica del Bergman degli esordi: dalle dilaganti pulsioni materialistiche della società svedese del dopoguerra ("Perchè alcuni hanno tutto e altri non hanno mai niente?") al peso di un passato ingombrante a tormentare minacciosamente la felicità di un amore appena sbocciato, dalle incomprensioni generazionali nel rapporto tra genitori e figli ("Sarebbe facile dare tutta la colpa ai miei genitori", riconosce Berit, dimostrandosi sincera nell'individuare e analizzare i propri e gli altrui errori che hanno segnato la sua vita) al disagio giovanile ("Voglio essere libera! Nessuno lo capisce: io voglio solo essere me stessa, lasciatemi in pace!", grida in lacrime Berit all'assistente sociale), dai traumi dell'infanzia (i flashback di Berit bambina che assiste terrorizzata ai litigi tra il padre e la madre) all'erotismo (le calze strappate di Berit, che Gösta le sfila dopo la rissa con i tre ubriachi, o un nudo femminile durante il racconto in flashback di Berit sulla sua vita in riformatorio) e ai fremiti della passione (la fuga romantica in albergo di Gösta e Berit, marito e moglie per un weekend) dall'incisività nell'affrontare, di volta in volta, le tematiche socialmente più urgenti e controverse (in questo caso l'aborto: "Conoscevo una ragazza ricca che restò incinta di un bambino ritardato. Ebbe un aborto, organizzato dal Ministero della Sanità, con un chirurgo famosissimo"; "E questo che cosa c'entra?"; "Noi che non siamo così ricchi dobbiamo arrangiarci come possiamo") allo spettro della solitudine ("È una cosa orribile essere soli"), dall'egoismo alla fuga rigeneratrice.

Da un punta di vista narrativo il film segue le canoniche evoluzioni drammaturgiche delle opere giovanili di Bergman: del dramma psicologico, infatti, il regista sposa l'attenzione verso le cause e le conseguenze di un trauma (il film si apre con il tentato suicidio di Berit), per poi immergerne l'analisi nel pathos di una tormentata vicenda sentimentale. Il flashback, invece, è il bisturi "grammaticale" attraverso cui si compie la trasfigurazione terapeutica, rivelando ogni mistero nascosto, consentendo di "smascherarne" le origini e liberando i personaggi dal peso opprimente di un oscuro passato. Inoltre le loro strade, prima di incontrarsi, devono affrontare difficoltà ambientali, storiche, culturali: la società che li accoglie, infatti, è un universo potenzialmente ostile, dominato da un Potere castrante e implacabile di fronte a qualsiasi ambizione "eversiva". La stessa mitizzazione della forza d'amore che colora di speranza i finali di queste prime opere bergmaniane, in cui i protagonisti vengono, almeno parzialmente, ripagati per le ingiustizie subite e si completa (o rinasce in un nuovo inizio) il loro tormentato percorso sulla "strada verso la felicità", è sempre subordinata alla benevolenza del Caso: un velo d'amarezza, perciò, finisce sempre, inesorabilmente, per increspare il sollievo liberatorio dell'happy end. La spregiudicatezza dello sguardo (l'erotismo), infine, non nasce soltanto dalle libertà dei costumi, ma è anche necessaria sottolineatura per avvicinare il più realisticamente possibile i personaggi e i drammi rappresentati a quelli della quotidianità: splendida, in questo senso, la sequenza con Berit e le sue compagne di stanza nel riformatorio, piccolo capolavoro di irresistibile sensualità. Rimane, comunque, l'evidenza che Città portuale, rispetto alle opere precedenti, goda di una maggiore cura formale ma anche di una minore spontaneità, nonostante, paradossalmente, l'approccio (neo)realistico che ne influenza scelte stilistiche, urgenza degli argomenti ed evoluzioni del racconto. L'anno seguente, con La prigione (ultima - ma la più preziosa - collaborazione con il produttore Lorens Marmstedt), arriverà un fondamentale punto di svolta per una nuova, esaltante (ri)partenza.

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