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Città portuale

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Città portuale

di Elvia
8 stelle

E' il 1948 quando Bergman afferma d'essersi ispirato a Rossellini e al neorealismo italiano, girando il più possibile in esterni, Città Portuale (Hamnstad), trasposizione cinematografica tratta dall'omonimo racconto di Olle Lansberg. Tale dichiarazione però non accredita l'opera del regista  ad essere considerata un film neorealista vero e proprio: le molteplici e bellissime inquadrature che lo sguardo della macchina da presa dedica al porto, al caos delle persone che lo affollano, alle sue navi che fischiano, al mare, al lavoro dei marinai chini a spalare sale, non mascherano certo l'inevitabile propensione di Bergman a voler penetrare intimamente nell'animo dei suoi personaggi fino a portarne in superficie le ossessioni, le angosce, i turbamenti, il loro passato; più che un'indagine oggettiva , come in realtà avvienne per i maestri del neorealismo, Bergman pone al centro della sua ricerca l' approfondimento sull'individuo, sulla persona. Sullo sfondo del porto Berit e Gosta: lei operaia in fabbrica dall'inquieto e desolante passato in un contesto famigliare dal precario equilibrio, provata  dal coinvolgimento in poco raccomandabili compagnie, in amare storie d'amore, per via degli anni costretti in riformatorio e delle ripetute e inutili fughe (il tentato suicidio d'inizio - secondo me la scena più bella del film -  ne è l'immagine straziante e lo specchio della sua disperazione e della sua solitudine). Lui è un marinaio, ormai triste e stanco del mare e dell'avventura. Sarà grazie al loro tormentato rapporto fatto di incontri fugaci e casuali, di cieca fiducia in nome del solo reciproco affetto (e aggiungo anche della somiglianza delle due anime abituate alla solitudine) che, Berit per prima, compirà lo sforzo, faticoso e più volte fallito, di raccontare a Gosta, ancora ignaro, se stessa nel suo passato per poi scegliere di sentirsi, con ciò, finalmente libera. Libera dall'oppressione  di chi/cosa ha intorno: sua madre, l'assistente sociale, il lavoro in fabbrica che le martoria le dita, le ripetute minacce che ancora le suggeriscono l'ipotesi di poter essere rispedita in riformatorio. Libera di farsi amare da Gosta per tutto quello che ha fatto e subìto senza più fingere celandosi dietro l'ingenuo sentimento del suo compagno. Ecco che Berit, coraggiosa, si riscatta in un'amara e sofferta confessione, un atto di presa di possesso della sua vita, ormai nelle troppe mani altrui (la famiglia - la madre - e le istituzioni), che le darà la forza di prendersi il suo posto, il suo spazio nella sua città (assieme a Gosta, ritrovato e perdonato), senza più l'ansia di scappare, di rifugiarsi lontano. Già questi primi anni di carriera del regista (il primo film è del 1945 e l'esordio che lo riconoscerà maestro della cinematografia mondiale avverrà nel 1955 al Festival di Cannes con Sorrisi in Una Notte d'Estate), sono già chiaramente individuabili i temi di ricerca e di sviluppo del suo cinema: temi che danno avvio ad un percorso coerente, capace di non (s)cadere nella maniera, pur nella sua eccezionale durata.

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