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Città portuale

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Città portuale

di Aquilant
8 stelle

Ai tempi di “Hamnstad”, pur trovandosi ancora ai primordi della sua carriera, Bergman si preoccupa innanzitutto di assimilare il più possibile le tecniche del suono, dello sviluppo e della riproduzione, in aggiunta ai segreti della macchina da presa e dell’obiettivo, prendendo piena coscienza dei suoi mezzi e preparandosi al grande salto di qualità che darà origine alle “stagioni della disillusione della coppia” e gli permetterà di regalare al suo pubblico due autentici gioielli tuttora sottovalutati, quali “Sommarlek” (Un’estate d’amore) e “Sommaren med Monika” (Monica e il desiderio), da rivedere in edizione integrale e nello splendore dell’audio originale. Sarebbe assurdo infatti privarsi delle intense performance vocali, così ricche di tonalità, delle due straordinarie interpreti May-Britt-Nilsson e Harriet Andersson.
“Hamnstad non era affatto una storia eccezionale” scrive l’autore nelle sue memorie, “per me si trattava di tirar fuori, in modo pulito, dal grande materiale di Olle Lansberg, un racconto adatto per un film. Sotto il forte influsso di Rossellini e del neorealismo italiano, cercai di lavorare il più possibile in esterni.”
In effetti in “Città portuale”, dove cominciano già a trasparire quelle sue cifre stilistiche ed estetiche cui siamo da tempo assuefatti, si respira un maggior senso di realismo rispetto alle sue opere precedenti, ma sarebbe comunque improprio effettuare un raffronto con le produzioni nostrane dell’epoca. Questo perché Bergman si limita ad osservare con occhi indagatori la realtà esterna che cinge d’assedio l’intimità dei due protagonisti, guardandosi bene dal compenetrarli nell’anonimo ambiente circostante e limitandosi ad estrapolarne i preconcetti e le manie sessuali devianti. I singoli drammi della contemporaneità costituiscono ormai viva e palpitante materia di esame da parte del suo cinema sempre pronto a fornire un’acuta rappresentazione del dolore fisico vivisezionato in tutte le sue sfaccettature. Ed i malumori esistenziali dell’individuo che si dibatte e sprofonda sempre più nell’abisso dell’abiezione sono contemplati a distanza vieppiù ravvicinata ed alla luce di un lontano passato.
Prendendo le mosse da una storia di ordinario disordine familiare Bergman dà l’avvio ad una vera e propria introspezione psicoanalitica, portando a galla in maniera cruda e diretta i traumi irreversibili dell’infanzia, riversandone le ripercussioni nella realtà odierna ed analizzandole alla luce di un presente perennemente avvolto in una straniante incertezza.
Da notare a tale proposito che la sequenza vagamente psicoanalitica della bambina che cerca di fuggire l’evidenza nascondendosi sotto il tavolo è stata molto più tardi riproposta, seppure in maniera caricaturale ed a sessi invertiti, dal regista Michel Gondry in quel suo sublime “Eternal sunshine of the spootless mind.”
In definitiva, come fa giustamente osservare il critico Francesco Savio, mentre il “neorealismo italiano mira sempre a risalire alle responsabilità collettive, Bergman fa il processo ad un gruppo sociale ben individuato che genera i mostri e poi li rifiuta”.
Il regista instaura qui un vero e proprio gioco dell’apparenza, introducendo alcuni dialoghi consumati nell’ambiguità di un rapporto tra immagine fisica ed immagine riflessa allo specchio: realtà diretta e realtà illusoria a confronto, la manifesta ambiguità dell’essere costretto a rimettere la sua capacità interlocutoria nelle mani di un vuoto simulacro di sé che il potere mistificatorio dell’arte cinematografica finisce col ridurre a perfetta opera di illusionismo, laddove apparire ed essere continuano a marciare sulla stessa direttrice, ma per poco tempo ancora. Perché già in “Sommarlek” lo specchio restituirà al soggetto guardante l’immagine della pura disillusione dopo le vampate estive, nel disingannante incalzare di un incipiente inverno della vita.

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