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Una sterminata domenica

Regia di Alain Parroni vedi scheda film

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La recensione su Una sterminata domenica

di EightAndHalf
5 stelle

Come raccapezzarsi nell'ambizione spiritual-impressionista del nuovo film di Alain Perroni, se non innanzitutto coi suoi riferimenti più evidenti ed entusiasti: le oscillazioni di camera che scrutano dalle prospettive più particolari e singhiozzano sommesse in sede di montaggio sono di ascendenza evidentemente malickiana, mentre l'utilizzo delle musiche di Shiro Sagisu, mitico compositore della serie Neon Genesis Evangelion, aggiunge quel tocco di dolcezza che ambisce al ritratto esistenziale di una generazione, tra gli oblii giovanilisti del cinema taiwanese fino ai sogni per corsa su due ruote del cinema di Hong Kong.

La verità però, a ben guardare il quadro generale dell'esperienza che consegna Una sterminata domenica allo spettatore, è che la volontà sia più quella di descrivere la noia quotidiana, il reiterarsi assorto di situazioni, eventi e luoghi, ognuno all'insegna della ricerca di amore e di conforto da un perenne senso di vuoto abissale, piuttosto che il resoconto caligariano di anime perdute nella romanità più oscura. Tutto caricato figurativamente sulle spalle dei giovani protagonisti del film, tre ragazzi delle province degradate della città eterna, che sognano nelle loro passeggiate a San Pietro ma si chiudono poi a riccio nei loro rituali ridondanti di luna park, corse in spiaggia ed esplorazioni urbane.

L’impressione principale di vago tedio, più o meno coerente con quello che è il film, è indubbiamente dettata dalla durata del film, quasi due ore, quasi sostanzialmente prive di evoluzione narrativa se non per rari scampoli che esplodono nel melodramma tragico del finale – altra grande struttura hongkongiana di violenza esistenziale romantica improvvisa e finale sulla scia di Benny Chan e Patrick Tam. Ma non è tanto il rallentamento della narrazione a far inciampare il film nella noia, quanto la “presenza” di questa stessa narrazione più in generale. Se è vero, come si evince dal film, che l’intento è quello di descrivere la ricerca d’amore in esseri umani persi nell’assenza di ideali e obbiettivi, e di quanto quest’assenza d’amore possa generare mostri, allora sarebbe stato più onesto ripiegare su un’assenza totale di racconto, nell’inquadratura di un mondo e nell’accoglienza sensoriale dello spettatore arrotondando l’entità degli eventi e somministrando un’esperienza più gratuita e meno maledettistica.

Se è però vero che un film non si fa con i se e con i ma, né tantomeno coi processi alle intenzioni, allora ci si limiti a dire che la narrazione singhiozzante, a tratti esplosiva a tratti trascurata, è semplicemente lo spiegone emotivo inessenziale di un mondo che dovrebbe spiegarsi da solo, con un’energia dettata dalla “semplice presenza” delle cose. Ma i corpi non sono presenti, non hanno peso, il film non riprende “niente”. Forse perché si pensa al Weightless di Malick (che in realtà si intitola Song to Song) e quindi all’idea di dare ai corpi una materialità più aeriforme – setacciata qui solo in funzione di sentimenti e spiritualità superstiziosa – o forse perché ancora, sul fronte registico, c’è da prendere qualche altra misura su cosa sia il dramma e da come derivi dalla distanza – fisica, emotiva – della camera dalle cose.

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