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Un colpo di fortuna

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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La recensione su Un colpo di fortuna

di lamettrie
2 stelle

Un film commerciale men che misero. Un bigino di una telenovela in salsa globalizzante occidentale.

Che questo regista (di cui sono ammiratore) sia una macchina da soldi, da tempo attentissimo a tutti i dettagli che fan vendere presso un pubblico sempre meno esigente, è arcinoto; ma è difficile pensare ad un’accozzaglia più scontata dei cliché della versione cinematografica di un’altra macchina, quella capitalista dell’intrattenimento.

Banalissimo: si esibisce una profondità su base intellettualistica, che è esclusivamente apparente. Una superficialità impressionante affiora nell’ostentazione di tutti i luoghi comuni legati alla cultura nel modo capitalistico. Lui scrittore, ma non si capisce come faccia a camparci, visto che non c’è traccia né di profonda intelligenza, né di successi passati. Lei gallerista, ugualmente limitata però; è presente solo per la sua bellezza. Quando i due si sentono rapiti dall’esperienza estetica, pare di assistere agli entusiasmi giovanili di due quindicenni che hanno letto qualche libro, oltre a quelli di testo scolastici. Ma non a credibili confessioni di due ultratrentenni come quelli mostrati, però.  

Luoghi comuni triti e ritriti, degni delle riviste femminili: dove la cultura seria sprofonda in mezzo a cucina, pettegolezzo, vestiti (e svestiti), viaggi nelle mete più scontate e più lontane da ogni gusto originale. In questo Allen non ha mai fatto bella figura: i suoi personaggi, nei film meno riusciti di questo secolo, sono ad uso e consumo dei rotocalchi rosa. Qui c’è l’invidia verso il ricco manager, per quanto laido. La contrapposizione di questi a gente non dedita al denaro, ma alle superiori esigenze dello spirito e dell’arte, è di una mediocrità che sconvolge, se si pensa a Wood Allen.

Mai una battuta, poi. Questo è anche caratteristico di film in cui non recita, di drammi seri; ma qui la minestra riscaldata sembra quella già rimasticata da davvero troppe sere.

Mai niente di intelligente si sente: la filosofia dell’aleatorietà, cardine del soggetto, sembra qui adatta a un pur buon dibattuto della bocciofila.  

Barcellona, Madrid, Londra, Parigi, Venezia (“la adoro”), New York: non si esce affatto dall’immaginario collettivo dei sogni degli ignoranti (lo si dice, indipendentemente dal titolo di studio), al netto del fascino che alcune di queste località giustamente mantengono.

Il contesto culturale è quello della vuota chiacchiera da salotto. Quello sociale è ancor più scontato, se possibile: il mondo dei ricchi. Unico pregio: almeno Allen qui mostra un po’ di critica, verso tale universo di persone false, scorrette, quando non criminali. L’invidia, la falsità, la maldicenza, l’assenza di qualunque valore umano positivo imperversano in un contesto che comunque, almeno, qui è raffigurato in modo piuttosto fedele. Anche se purtroppo, il regista fa leva più sull’invidia sociale che non sulla riprovazione di tali esempi diseducativi.

Il conformismo consumistico di quest’opera, capace di appiattire legittimi interessi culturali, è spaventoso. Il nulla della menzogna capitalistica c’è tutto: solo qui è leggermente alzato di livello; del resto, una certa consumata capacità tecnica, consolidata, non si può negare al vecchio comico.

Il sogno della bella carriera, della bella casa, della città famosa, della famiglia felice, dell’inseguire i sogni, dell’illudersi di distinguersi per vaghe e puerili velleità intellettuali…: non ci si schioda dal rotocalco che si sfoglia in attesa del proprio turno dalla parrucchiera.   

L’intrico da thriller è anch’esso scontatissimo. Attendersi suspense è un ricordo.

Una pena, se si pensa a Woody Allen. Se fosse un calciatore, si direbbe «è ora di appendere le scarpe al chiodo»: del resto, a 88 anni…

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