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L'albero della vita

Regia di Edward Dmytryk vedi scheda film

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vincenzo carboni

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'albero della vita

di vincenzo carboni
8 stelle

È il 27 dicembre 2010 di una serata inoltrata. Mia figlia si è finalmente addormentata. È da molto tempo che non faccio le ore piccole per un film (soprattutto non ricordo più da quando ho visto un film affidandomi ai tempi della rete TV che lo offre, pubblicità comprese), ma stasera –dopo aver visto per l’ennesima volta ‘Cenerentola’ con mia figlia- prendo la coincidenza per un’altra direzione del mio viaggio immaginario, e mi accomodo sul treno che porta alla Contea dell’albero d’oro, il luogo dove si svolge l’azione de ‘L’albero della vita’. Ho detto ‘azione’; ma il protagonista è mite nei confronti della vita che lo aspetta, la abbraccia indulgendo solo ad azioni dirette a mete simboliche, come la ricerca dell’albero d’oro, l’oggetto che promette un’aura di felice e mite convivenza del leone con l’agnello, proprio a ridosso della guerra di secessione e dei fantasmi cupi della bestialità dell’animale uomo, benchè parlante. È l’oggetto che evoca la mancanza originaria quello che John-Clift cerca e che continuerà a non trovare, trovando tuttavia in questo processo la assoluta irriducibilità della mancanza alla vita dell’uomo. Si tratta per John di compiere una ricerca che cerca, cerca incessantemente qualcosa che non è possibile trovare, installando la propria missione nel campo religioso, dapprima sposando una donna fragile che chiede solo di essere cercata ma non trovata, poi nello sposare il proprio ruolo di educatore, e quindi di amministratore pubblico sulle ceneri della guerra fratricida. Susanna-Taylor non avrà altro da perseguire che il proprio desiderio insoddisfatto, in questo continuando a godere dell’insoddisfazione pur pensando di aver guadagnato l’oggetto conteso con il matrimonio. La donna che John sposerà sarà teneramente e subdolamente abitata dal sintomo, metafora questo del trauma prodotto da una mancanza primitiva, quello del primo oggetto d’amore, quella madre non riconosciuta –ma bianca- al posto della quale desiderarne un’altra –la sua bambinaia- benchè portatrice dello stigma sociale della pelle scura, essendo questa meticcia. Ma tant’è… È una sola goccia di sangue scuro a fare di un uomo un negro, esclama Susanna imprigionata nello scacco prodotto tra l’odio e l’amore diretto verso la stessa persona, dovendo comporre ciò che per un bambino è impossibile: avvicinare una madre che allo stesso tempo spaventa. Si desidera ciò che non si ha, quello che sfugge alla nostra presa per poterlo continuare a volere. Ecco che John non sposa la sua compagna di studi –Nell- ma la sua antagonista dai capelli neri, disposta ad ingannare (il suo sintomo mente essendo la natura di questo mentire come lo scorpione sul dorso della rana entrambi a guadare lo stagno) pur di guadagnare a sé la protezione (Mi abbandonerai? Mi continuerai a proteggere?) dalla propria pazzia. Si tratta per Susan di passare dalla bambola che sta per l’assenza materna, all’uomo disposto a fare presente la propria parola per cacciare il fantasma del sintomo isterico. Il tenero lapsus della bambina (“Papà è innamorato di… F.to: un’amica fidata”) esprime un edipo in cui la madre naturale è fatta fuori per proteggere una madre vicaria, compagna del proprio padre, ma macchiata da quell’unica goccia di sangue che la rende corrotta. Non c’è parola, solo la rappresentazione di un rogo che divora insieme strega e inquisitore, lasciando sola la bambina in compagnia delle macerie, e di una bambola. John cerca di chiamare la parola (è un maestro di scuola) ma questa è fissata all’evento traumatico. Per Susanna non c’è storia, biografia, e la guerra non è che il ritorno delle stesse fiamme che lei stessa crede di aver provocato con la sua confessione. La morte rituale è come una caduta mistica di fronte ad un potere fallico infinitamente più grande di quello del marito, sia come funzione che come promessa di parola ultima. Non è il fuoco stavolta, ma il suo opposto: l’annegamento nelle paludi dove da qualche parte è piantato l’albero mitico dai frutti d’oro ad opera del fondatore della comunità. È l’albero dal frutto proibito nell’eden dove la felicità regna come nel discorso ben congeniato ma fatto di bugie incantatrici. Là dove è l’albero in quanto falso, in quelle stesse acque giace la verità tutta umana che non si può dire se non come –appunto- falso, come buco. Taylor e Clift sono mettono in scena interpretazioni candide e spaventate. Mi sono chiesto durante il film: perché Taylor fa sempre queste parti femminili avide ma candidamente tragiche? Potrei chiedermi lo stesso per Clift (perché le stesse parti di uomo mite e materno?). È John che fa da madre a Susan non potendo la parola del padre arrestare la deriva di follia. Sarà lui stesso madre anche per suo figlio, e fratello di un compagno ubriacone, fedele nelle sbornie come nella ricerca vana di sé. Un film insomma buono, buonissimo per fare le ore piccole con la propria donna accanto. Ricorderò l’onestà dei personaggi e la calibratura dei dialoghi (Susan: «C’è come un muro tra noi», cioè la malattia che confonde il linguaggio e il desiderio. Ancora Susan: «Dov’è la bambola?». Ancora: «L’amore non può nulla» dice la schiava a John, rammentandogli con queste parole che, cercando un albero che non c’è, si finisce per trovare la ruvidità di un Reale che torna sempre allo stesso posto). ‘L’albero della vita’ è un film buono per sentire una volta di più l’appartenenza rassicurante ad un genere umano privo di ogni consolazione che non sia la propria indissolubile solitudine.

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