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L'albero della vita

Regia di Edward Dmytryk vedi scheda film

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La recensione su L'albero della vita

di spopola
6 stelle

Le tematiche sul tappeto erano molteplici ed intriganti, ma avrebbero richiesto una introspezione approfondita che tenesse conto di tutti quei fattori sottotraccia che potevano rendere più plausibili i tormenti dei protagonisti al di là dei semplici rapporti interpersonali, per rendere pienamente attendibile il clima (ma anche la temperatura)

Nelle intenzioni, questa riduzione in immagini del corposo romanzo di Russ Lockridge jr. avrebbe dovuto rinverdire i fasti di “Via col vento”: ancora una volta un affresco denso di “avvenimenti drammatici” e di annotazioni sociologiche sullo sfondo della guerra di secessione americana, uno dei più terribili ed efferati scontri fratricidi storicamente documentati, che contrappose, più che il Nord al Sud, due ideologie contrastanti per ragioni ovviamente ben più profonde e laceranti di quelle collegate allo schiavismo dei negri, perché come sempre in ogni guerra, le motivazioni prioritarie che le alimentano vanno ricercate nelle implicazioni di carattere economico e nel desiderio prevaricante di una fazione di arrogarsi il diritto della gestione del potere secondo le proprie regole e convinzioni, che sono tutt’altro che altruistiche e umanitarie ma che si mascherano spesso dietro una facciata che vorrebbe esprimere il desiderio di una più uniforme espansione di libertà individuali, risultati che sono poi quasi sempre contraddetti dalle conseguenze pratiche che coinvolgono la vita degli sconfitti ben oltre la transizione di riassestamento del “dopo conflitto”. Le tematiche sul tappeto erano ovviamente molteplici ed intriganti, ed avrebbero richiesto una introspezione approfondita che tenesse conto di tutti quei fattori “sottotraccia” che rendevano plausibili i tormenti dei protagonisti al di là dei semplici rapporti interpersonali, per rendere pienamente attendibile il “clima” (ma anche la “temperatura”) del periodo che qui invece spesso risulta pesantemente annacquato e di maniera. Probabilmente questa è una delle ragioni principali per le quali poi all’atto pratico, i conti non quadrarono del tutto, né le previsioni furono onorate completamente, non solo sotto il profilo del ritorno economico, ma anche e soprattutto, per quanto riguarda l’esito “artistico” dell’insieme (o anche, più semplicemente, del diretto coinvolgimento emotivo dello spettatore che rimase “fiacco”, rasentando persino l’indifferenza, nonostante la progressione verso la tragedia degli eventi narrati). Qui, ancor meno che nel prototipo di riferimento, la “storicizzazione” è in effetti poco più di una cornice di comodo, comunque necessaria per fornire una collocazione credibile alle psicologie dei personaggi che interagiscono all’interno di un affresco complesso ed ambizioso che mette però “troppa carne al fuoco”, per altro non sempre omogenea e compatibile e non tutta cotta al punto giusto. Le cadenze scelte, sono ovviamente quelle del melodramma che privilegia l’analisi dei “fatti personali”, ma non vorrebbe per questo dimenticare le valenze “politiche” e culturali che li alimentano e li determinano (come i temi dell’odio, del razzismo e dello scontro ideologico fra differenti classi sociali che probabilmente il romanzo manteneva costantemente in primo piano, ma che qui vengono invece solo sfiorati in superficie e non sempre con la necessaria lucidità e attenzione prioritaria). Ci si spinge anzi con troppa enfasi verso una sponda leggermente “favolistica” (che determina una scollatura evidente e una fastidioso senso di astrazione che attutisce ulteriormente l’impatto). L'intento era ovviamente quello di impreziosire (anche figurativamente) l’insieme e renderlo più elegiaco, ma il risultato è decisamente inverso, capace semmai di far perdere di incisività al dramma, che risulta meno “attendibile” e coinvolgente di quanto sarebbe stato necessario. Questo, per l’amplificazione accentuata, ma un po’ troppo semplicistica (o semplicizzata) del “concetto di fondo” che ne dovrebbe riprodurre il succo e l’essenza e che potrebbe estrinsecarsi nella idealistica ricerca di una “impossibile” felicità assimilabile quasi a una astrazione filosofica difficilmente materializzabile nel concreto, che porterà inevitabilmente a scontrarsi con la realtà di quelle problematiche conflittuali che segnano ogni esistenza nel passaggio doloroso dalle utopie della gioventù al consapevole realismo dell’età più matura e che rappresentano lo scotto da pagare per ogni “maturazione cosciente” comunque necessaria per acquisire il senso di ciò che definisce davvero la vita e l’esistenza. Ed ecco allora che le allegorie debordano un po’ troppo a partire dal titolo scelto per la versione italiana (quello originale, “Raintree Country”, potrebbe risultare davvero molto più consono per indirizzare lo sguardo verso la definizione delle azioni e delle dispute nella dimensione più universalizzata dell’intera contea e, conseguentemente, della nazione di riferimento): “L’albero della vita”, ovvero la ricerca illusoria di quel miraggio irraggiungibile dalle foglie d’oro che dovrebbe simboleggiare l’effettivo “ritrovamento” della felicità, della fortuna e dell’equilibrio, che sembra alfine concretizzarsi nell’improbabile finale che quasi ne rende corporea ai nostri occhi la presenza (o è solo la musica e la fotografia a "spingere" il pensiero in quella direzione?) con il figlioletto “smarrito” e ritrovato addormentato fra le sue radici quasi in posizione fetale. Forse è proprio il rigore a risultare “difettoso”, una falla evidente che fa ancor più risaltare la sostanziale debolezza dell’impianto. Non che manchi la professionalità, intendiamoci bene, perché il film è diretto con indiscussa maestria, ma con scarsa partecipazione e - immagino – ancor meno convinzione, sviando frequentemente in divagazioni epidermiche che danneggiano la compattezza dell’insieme. Regia professionale, ma poco creativa, dunque, di un autore che riconferma anche in questa circostanza, il suo “appannamento”, quasi una dimostrazione implicita della perdita dell’interesse e della speranza (o forse semplicemente e più drammaticamente, della stima in se stesso e nelle proprie capacità, nel suo “rigore morale” insomma, una volta elevato e inappuntabile). Non c’è più traccia dello sguardo coraggioso e graffiante delle origini (ma era ormai già da tempo che il regista dimostrava di aver definitivamente “gettato la spugna”, una “perdita di concentrazione autoriale” rintracciabile in tutta la sua produzione successiva al “fattaccio” che lo avrebbe segnato per sempre): rimane solo il sospetto di una voglia (in)conscia di “negazione” e “rifiuto” delle proprie qualità, una disponibilità ad accettare ogni più bieco compromesso quasi per autopunizione indotta, visto che “tutto era ormai definitivamente perduto” soprattutto l’onore, dopo la delazione e l’accusa “per salvare a sua volta la pelle” – un atto di vigliaccheria inammissibile - di fronte alla commissione per le attività antiamericane del Senatore McCarthy (un altro dei momenti bui che ciclicamente si ripresentano all’orizzonte della “strombazzata” civiltà superiore della democrazia americana, come anche la situazione attuale sta a dimostrare). Una “colpa” che davvero non avrebbe consentito a Dmytryk di riacquisire interamente la propria dignità non solo professionale, ma anche umana. Le vicende descrittre nel romanzo-fiume di partenza, si confermano complesse al pari del prototipo, e potrebbero davvero alimentare “interminabili” saghe seriali: qui si narra – semplicizzando - di John, promettente allievo della Purdee Accademy, sognatore appassionato e ingenuo alla ricerca del leggendario albero dispensatore dei frutti della vita, che si innamora di una ricchissima giovane ereditiera del Sud. Accecato dalla passione, non esiterà a sposarla, lasciando per questo nuovo sentimento, Neil, la fidanzata con la quale aveva coltivato le illusorie idee dell’utopia. Trasferitisi dopo il matrimonio nella casa di famiglia della donna, cominceranno poi ad emergere gli egoismi e le gravi “problematiche mentali” in gran parte legate alla pazzia della madre di lei che furono la causa traumatica della tragica morte di entrambi i genitori. Dopo la nascita del figlio, si acuiranno ulteriormente le differenze e le incomprensioni dovute alla diversa concezione di due culture contrapposte, che porteranno a una prima rottura del rapporto. Poi, dopo la fine della guerra e una apparente momentanea riappacificazione, la “tragedia” finale riaprirà in un certo senso la strada lla speranza. Come ben sottolinea il Mereghetti, ”si potrebbe persino identificare nella donna, ossessionata dal dubbio di avere sangue nero nelle vene, la rappresentazione metaforizzata del Sud che corrompe e trascina alla rovina, e nel marito poeta e sognatore che si lascia travolgere, quella del Nord idealista e libertario” vincitore, ma al tempo stesso sconfitto, ma ci vorrebbe davvero molta immaginazione per arrivare a tanto. La lavorazione, già di per sé laboriosa per le ambientazioni e la bizzosità di alcuni protagonisti, fu per altro funestata dal gravissimo incidente che deturpò indelebilmente (nonostante i tentativi di ricostruzione plastica che lo avrebbero reso progressivamente quasi grottesco in una fissità indiscutibilmente inespressiva e “stupefatta”, fortemente "disumanizzata"), il bel faccino di Motgomery Clift (a ben guardare, sono facilmente individuabili, anche se ottimamente camuffati, i “prima” i “dopo”). Probabilmente tutto questo determinò qualche frizione di troppo, ma non è comunque una attenuante sufficiente per giustificare il sostanziale fallimento dell’impresa, al di là di una “piacevolezza dell’insieme” che colloca la pellicola nel limbo amorfo “senza infamia e senza lode” della media produzione hollywoodiana molto interessata alla cassetta e ai premi ma sostanzialmente priva di stimoli. Cast “da capogiro”, con in primo piano, come gia accennato, Montgomery Clft (qui difficilmente valutabile come attore, proprio per le ragioni sopra evidenziate, ma oggettivamente scarsamente incisivo e spesso quasi “spaurito”, decisamente molto al di sotto del suo standard abituale) e una fulgida Elisabeth Taylor di rara bellezza porcellanata, impegnata in un ruolo che le fornirà l’occasione per gettare le basi per la definizione delle complesse figure “caratteriali” che affronterà nella evoluzione successiva della sua carriera (qui alle prese con un personaggio psichicamente complessato che disegna correttamente ma senza la necessaria profondità) contornati da una godibilissima Eva Marie Saint, e da una come al solito inappuntabile Agnes Moorehead, gloriosa caratterista di classe superiore. Di analoga levatura il parterre maschile (Lee Marvin, Nigel Patrick, Walter Abel e un giovanissimo Rod Taylor). Ottima la resa cromatica dell’insieme, accompagnata da un tonitruante commento musicale di Johnny Green a volte sovraccarico, ma capace comunque di ben sottolineare con la sua forza drammaticamente dirompente, i momenti salienti di azioni spesso melodrammaticamente estremizzate.

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