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A Beautiful Mind

Regia di Ron Howard vedi scheda film

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La recensione su A Beautiful Mind

di lamettrie
10 stelle

Un gran bel film, che merita la fama che ha. Ma forse se ne sottolinea poco questa, che è la più importante caratteristica del film: è una storia d’amore. Una commuovente, anche se solo in parte realistica, neppur lontanamente commerciale, storia d’amore. Il discorso di fronte alla platea del Nobel è la vera cifra della pellicola: se non ci si sente amati, tutta la vita è un disastro, anche a fronte dei successi più pubblicizzabili. Al contrario, se ci si sente amati, la vita acquista un valore molto più positivo che negativo, anche a fronte delle peggiori disgrazie.

E nel film se ne vedono, di disgrazie: non è certo un colpevole il protagonista, che è appunto vittima di una terribile malattia come la schizofrenia. Il suo cervello ha prestazioni troppe elevate rispetto alla media, funziona in maniera troppo veloce: è per questo che vien considerato un genio; è per la stessa identica ragione che soffre in modi allucinanti, e crede in cose sbagliatissime, ovvero in cose inesistenti, a un semplice esame di realtà. Infatti soffre di allucinazioni: vede e ascolta quello che non c’è. Il film non fa sconti retorici sulla malattia pesante: la mostra per quello che è, un calvario terrificante, con cui bisogna solo convivere, cercando di evitarne sempre di più i danni, e cercando di sfruttare sempre di più i varchi alla normalità e alla felicità che vengono lasciati aperti da tale malattia, quando si  cerca di affrontarla in modo serio, pur con tutti i terribili sacrifici che ciò implica.

La moglie è la sua unica ancora di salvezza, e questo è davvero commuovente. E il film non è per nulla dolciastro neppure in questo: la studentessa Connelly si è tirata la zappa sui piedi da sola, dato che poteva benissimo intuire quale squilibrato cercava di circuire (per motivi di fascino intellettuale, che indubbiamente c’erano, come peraltro capita assai di rado? O per opportunismo con un professore? Non si sa). Eppure non è mai venuta meno ai suoi doveri di moglie e madre, pur avendo visto tutto l’orrore che si poteva vedere in quei casi, avendo a che fare con una persona incolpevole, alla fine, ma realmente capace di delitti (delitti anche contro di lei moglie, o del figlio di pochi mesi!), proprio perché incapace di intendere e volere, come nel suo caso.

Il film si mostra poi inaccettabile a chi si appaga di clichè accettati, anche per la condanna della perfezione della ragione. Quanto più il protagonista celebra il valore di primato assoluto e autonomo della sua intelligenza, la avoca come suo tratto distintivo che appunto lo eleva sopra gli altri; tanto più questa intelligenza (“a beautiful mind” appunto, come provocatoriamente e ambiguamente il titolo sottolinea),  illusoriamente fredda, indifferente alle emozioni, calcolatrice ai sommi livelli, ordinatrice quasi alla competenza di Dio, si mostra impotente ad assolvere al compito che i suoi fanatici sostenitori le assegnano: quella di essere l’unica discriminate per una vita degna di senso. Le parti invece in cui la moglie mostra (piangendo, in mezzo alla più cupa e comprensibile disperazione) quelle che sono le vere motivazioni del vivere, sono le più significative di tutto il film: le carezze, la volontà di amare ed essere amati, secondo una disponibilità e un impegno profondi, mai smentiti in tutta l’angosciante lunga (necessariamente lunga) durata del film, nella consapevolezza del rischio, non di poco conto, che tutto ciò comporta.

La ragione, se non è corroborata dall’affetto, resta un ramo secco e malato; porta frutti solo se appunto muove le sue ricerche sulla scorta di un affetto ricevuto e dato, e dalla serenità solida che può conseguire eventualmente solo da tale affetto condiviso.

La competitività fa male, contribuisce ad annichilire ciò che è umano: il protagonista raggiunge le varie scoperte, che contribuiscono ad assicurargli la meritata fama iridata, proprio nel momento in cui rifiuta la lotta per i primi posti. Non frequenta le lezioni, e deve pagare le conseguenze di ciò, in termini di carriera da ricercatore fermata; ed è lo stesso che tanti decenni dopo, all’apice di un persino insperabile successo, riconosce di non volersi tradire, di fronte alla possibilità del premio Nobel, facendo balenare l’idea che potrebbe rinunciare a quel premio, se gli si chiedesse di recitare una parte ben diversa da quella che è la sua identità. Identità che ha imparato ad accettare: in quell’occasione ammette di essere un pazzo. Proprio la capacità di convivere con la patologia, aiutato dall’amore ricevuto, è la variabile che lo ha fatto andare avanti, che alla lunga gli ha permesso di dare un senso più felice che triste alla sua vita. Il film è molto onesto, e quindi poco commerciale, anche nel mostrare che le ferite del passato (lì visioni di cose inesistenti, mostri vivi solo nella sua testa, incubi, fantasmi…) non si possono cancellare con un tratto di penna, a maggior ragione quelle più tremende.

Sarà anche molto superbo, Nash: del resto è caratteristico della sua patologia, sentirsi Dio, perfetti, o vittime, perseguitati dal mondo, o superiori a tutto…  ma si sentiva cosciente del suo valore. Ne era cosciente quando i fatti lo smentivano (i compagni lo sfottevano per delle sconfitte intellettuali); ne era cosciente quando i fatti gli hanno dato ragione.

La competitività fa male, e anche il conformismo fa male: lui stesso consola gli studenti per il fatto che devono sorbirsi il pensiero di altri, e questi studenti sono proprio quelli che lo seguono a lezione, anche se è lui stesso a fare quelle lezioni, che pure ritiene di altissimo livello, e a pieno diritto. E ciò non è una contraddizione: rientra nella consapevolezza nietzscheana che ogni apprendimento è tale solo se è personale, nella disponibilità  pagare il prezzo alto e spesso tragico dell’originalità vera e seria, financo l’isolamento e la mancata comprensione di sé da parte degli altri.

Inoltre il film non è del tutto esente da condivisibili interpretazioni politiche. Il professore che alla’inizio stimola gli alunni, tra i migliori d’America, invoca il loro impegno “per la democrazia e la libertà”, nell’auspicio che possano proseguire le gesta di chi ha scoperto la bomba atomica. Insomma, la critica al sistema americano è evidente, anche per la condanna alla competitività all’università, già citata. Si era nel periodo di McCarthy: e infatti l’allucinazione peggiore di Nash riguarda la lotta la comunismo, che in realtà era un timore del tutto sproporzionato rispetto alla realtà, all’interno dei confini Usa, rispetto a quanto lo stato ha voluto far apparire.

Il ritmo è favoloso. La recitazione è perfetta. La scelta del soggetto è intelligente, tanto per il valore intrinseco, quanto coraggiosa in senso lato.

Crowe è all’altezza, anche se una parte così difficile, importante e imponente sarebbe stata resa meglio da molti altri, almeno da specialisti dello squilibrio mentale come Nicholson (indubbiamente troppo vecchio per la parte) o Di Caprio.

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