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C'era una volta un merlo canterino

Regia di Otar Iosseliani vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su C'era una volta un merlo canterino

di omero sala
7 stelle

 

locandina

C'era una volta un merlo canterino (1970): locandina

 

C'era una volta un merlo canterino è un film senza trama, senza storia. 

Racconta alcune giornate frenetiche quanto inconcludenti del giovane Guia Adgadze, un suonatore di timpani dell’orchestra sinfonica di Tiblisi, in Georgia: un suonatore davvero originale che arriva puntualissimo verso la fine dei concerti, si intrufola di soppiatto nella fossa dell’orchestra (detta golfo mistico) giusto per percuotere i suoi timpani che entrano sempre nelle battute finali del brano sinfonico. 

Il vizio di arrivare tardi, ma comunque in tempo per fare la sua parte battendo quei pochi colpi che concludono il concerto, è inveterato: Guia persiste nel suo ritardo (sembra quasi che si impegni nel suo ritardo) nonostante i rimproveri bonari delle amiche costumiste, quelli un po’ più insofferenti degli aiutanti di scena e le minacce di licenziamento del responsabile del teatro o del direttore d’orchestra. 

 

Le ragioni di questo ritardo non sono mai particolarmente giustificate. Guia non ha molto da fare: sale sulle colline che circondano la città per sdraiarsi nei prati al sole, bighellona per le strade incontrando amici, abborda le ragazze che incontra, si intrattiene con vecchi conoscenti e nuovi amici, genitori e parenti, ragazzini e artisti. Ha sempre fretta, ha sempre altro da fare e spesso abbandona una compagnia, un’amica, solo per arrivare tardi ad un appuntamento che si era dimenticato di avere. 

Con l’amico orologiaio si lamenta di non avere tempo per nulla. 

Vive alla giornata: si potrebbe dire che si lascia scivolare addosso il tempo, un’ora dopo l’altra, senza impegno, senza crucci, senza interesse. Non è oblomoviano e nemmeno antistakanovista ma più banalmente un frenetico inconcludente.

Finché finisce per essere investito da un tram. 

E noi vediamo che il traffico congestionato si ferma, si affollano i curiosi, arrivano i soccorsi. Partono i titoli di coda.

Non ci viene mostrato il corpo ferito o scomposto, il sangue, la barella, le manovre di primo soccorso, camici bianchi, ossigeno o flebo. 

Joseliani ha seguito con leggerezza il girovagare inutile di Guia, senza approfondire le ragioni umane, psicologiche, politiche di tanta fatuità: ora registra il suo fine corsa con la stessa distratta attenzione. Senza enfasi, senza funambolismi di ritmo, di montaggio o di colonna sonora. 

I climax non fanno parte della vita ma solo della sua narrazione enfatica, quindi falsa. 

 

Trovo particolarmente geniale questo disincantato elogio della futilità della vita, questo raccontare il suo scorrere senza scavarne il senso (che non c’è) e senza volerne distillare a tutti i costi una biografia degna di essere narrata, meritevole di memoria. 

Un’idea veramente poco “sovietica” dell’esistenza: il che spiega la marginalità di Joseliani che alla fine, a 50 anni, dovette andarsene dall’URSS e scegliere l’esilio in Francia.

 

Le targhe dei monumenti, così come le più semplici lapidi dei cimiteri, a dirlo chiaramente, sono piene di epigrafi elogiative: le prime vogliono tramandare alla memoria l’esemplarità di una qualche impresa; le seconde testimoniano il momentaneo sgomento di chi le ha dettate, non la reale natura del defunto o la sua insostituibilità. Tutti sappiamo e verifichiamo che il dolore e lo sgomento per ogni perdita si stempera col tempo, che i monumenti diventano spartitraffico, che le epigrafi elogiative, assomigliandosi tutte, si scolorano e si rivelano patetiche, se non ridicole per la loro enfasi spesso insincera.

 

I film di solito ci attraggono nella rete della loro trama per coinvolgerci, ci trascinano nelle avventure che sviluppano e sono quasi sempre congegnati per farci immedesimare nei protagonisti che agiscono, soffrono, amano, si arrabbiano, corrono rischi, lottano, superano ostacoli, vincono…

Questo film ci tira un po’ in giro (nel doppio senso dell’espressione ci canzona e ci porta a spasso) per farci assaporare la superficialità delle esistenze, per suggerirci l’irrilevanza di ognuno, per convincerci dell’indifferenza fra l’essere e il nulla (Sartre, nel suo L’être e le néant  dice che Le apparizioni che manifestano l’esistente non sono né interiori, né esteriori: si equivalgono tutte, rimandano tutte ad altre apparizioni, nessuna delle quali è privilegiata).

 

Guia, senza darsi arie di esistenzialista, è indifferente a tutto, vive senza nevrosi la incapacità di trovare un senso alla vita, è sostanzialmente disconnesso: non sente il bisogno di anestetizzare nulla, non ha vuoti da riempire, la prospettiva da cui guarda la sua vita ha un orizzonte intenzionalmente breve. Guia non conosce frustrazioni perché non ha aspettative; non ha motivi per combattere, per avere speranze, per porsi degli obiettivi perché sente, forse inconsapevolmente, che la vita è irragionevole, che è inutile cecare di imprimerle una direzione. 

E la sua durata non può che essere indifferente, come la durata della vita del merlo canterino, svagato finché campa.

 

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