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Django 2 - Il grande ritorno

Regia di Nello Rossati vedi scheda film

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La recensione su Django 2 - Il grande ritorno

di scapigliato
8 stelle

Nello Rossati non fa proprio un brutto lavoro riportando in vita a 20 anni dalla sua prima apparizione, l'originale Django di Franco Nero, Corbucci e Rossetti, che ritroviamo in clausura in Messico. La prima cosa che ci salta all'occhio è l'ambientazione. Siamo inverosimilmente in Messico, visto che la foresta colombiana in cui è stata girata la pellicola non c'entra nulla col Messico e la sua gente, qui infatti il biotipo latinoamericano è riconoscibilissimo. Ma a parte questo, che serve sempre per dare una cifra favolistica e "interiore" ad una storia (lo hanno fatto ricreando il western in Spagna, e lo ha fatto Olmi ricreando la Cina del '600 nel Montenegro), il film ripercorre i luoghi comuni, neanche poi banalizzandoli come si dice, dell'immaginario djanghiano (Dio che termine!). Cimiteri, carri da morto, mitragliatrice, battute lapidarie e quant'altro. Il paesaggio di distruzione perpetua che si mostra ai nostri occhi come a quelli di un redivivo Django che torna nel mondo per vendicarsi di nuovo, è affascinante e sebbene non propriamente "western", riesce lo stesso a creare un universo narrativo degno del suo personaggio. In più, molti rallenty ci aiutano a fissare il gesto, ad amplificarlo e a renderlo così elemento di una narrazione epica. Perchè tale è la missione di Django, dovendo liberare quegli uomini dalla schiavitù, compresa sua figlia, e battersi con quel militare arrogante e dandy, che fa del culto del bello un esclusiva per soli bianchi e aristocratici. Un personaggio quello di Christopher Connelly, il Colonnello Orlowsky, tra i migliori cattivi del genere, anche se risente della modernità dell'epoca perdendo così la figurazione western che lo avrebbe reso un personaggio più mitico, che uno dei tanti emblemi del mondo corrotto.
Purtroppo a 20 anni di distanza non solo è cambiata la società, ma anche il cinema. Una produzione radicale come quella di Corbucci era impossibile (oggi forse anche di più, ma non è detta l'ultima parola). Erano i pieni anni '80, l'epoca degli sparatutto, del machismo reaganiano, del paramilitarismo di Rambo e di altri bravi guerrieri americani (è un eufemismo ironico, non crediate...). Difficile quindi portare al cinema uno spaghetti-western, di per sè appartenente ad un momento storico morto e sepolto, e che avesse qualità radicalmente opposte alla linea dominante. Ecco che il nuovo Django di Franco Nero è più buonista, più corretto (sta in un monastero e vuole poi liberare il popolo messicano dalla schiavitù), caratteri che nel '66 non c'erano affatto. Ma Franco Nero rimane il miglior Django dello schermo, anche se Terence Hill, protagonista del primo sequel "semi" ufficiale scritto da Franco Rossetti come nel primo capitolo, e Anthony Steffen, il bravo e mai dimenticato attore di spaghetti-western che interpretò per più volte il Django dei capitoli apocrifi, non furono affatto male. Ma l'originalità ha il suo prezzo, e non prevede imitazioni. Così l'attore di San Prospero, Parma, riesce a non far rimpiangere il Django degli inizi, ma forse ci aiuta a capire che il suo personaggio è fatto per altri scenari, altre storie, altre intenzioni autoriali.
Oggi, ad ulteriori 20 anni da questo secondo capitolo, e quindi a 40 dal primo, come potrebbe Django ritornare sul grande schermo? Non è impossibile. Prima di tutto chi ha detto che per fare un bel western all'italiana bisogna dimenticarsi della lezione storica? Se togliamo i cosidetti "luoghi comuni" di Django, dove lo collochiamo? In che narrazione? In che immaginario? Il Django di Franco Nero è destinato ad un certo universo emotivo, a certe tensioni metafisiche, ad una certa iconografia nera. Django può tornare sul grande schermo, e non solo per il successo che avrebbe dati i numerosi e incalcolabili fan che ha sparsi per tutto il mondo, ma perchè in mano a gente competente, lontana dal businness e dal profitto aziendale, riuscirebbe a vestire nuovamente i panni di un'antieroe di cui oggi siamo disperatamente a caccia (fortuna che c'è Clint Eastwood).

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