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Salò o le 120 giornate di Sodoma

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Salò o le 120 giornate di Sodoma

di solerosso82
10 stelle

Conclusa la trilogia della vita con Il Fiore delle Mille e una Notte, Pasolini è pronto ad affrontare il tema dell’orrore e della morte: in tutti i sensi, perché durante il montaggio della pellicola verrà assassinato sul lungomare di Ostia.

La parabola discendente nelle ossessioni della depravazione umana, perpetrate da quattro gerarchi fascisti su un gruppo di adolescenti torturati all’interno di una villa del mantovano, nel clou dell’occupazione nazifascista, segue una struttura boccaccesca simile a quella del Decameron, rovesciandone però radicalmente il significato allegorico. La peste per Boccaccio simboleggiava la morte, fronteggiata con ottimismo dai giovanissimi drammaturghi esaltando positivamente vizi e virtù mondane, metafore stessa della vita. In Salò invece, i gerarchi, uomini vecchi o di mezza età, affrontano similarmente l’imminente sconfitta bellica e ideologica (di fatto, la loro "peste nera"), rifugiandosi in una villa palladiana, un luogo ameno, quasi tagliato fuori dallo spazio-tempo, dando però sfogo ai loro istinti malati “fuori dai confini di ogni legalità”, eccitati dai racconti licenziosi e osceni delle loro avvenenti accompagnatici. Da una parte trionfa la vita e l’allegria, dall’altra, dunque, la pazzia e la morte.

Se il primo riferimento letterario, citato nello stesso titolo, non può che essere De Sade con il romanzo Le centoventi giornate di Sodoma, Pasolini si confronta esplicitamente con il mondo dantesco. Lo spettatore diventa Virgilio, accompagnando Dante/Pasolini, il narratore delle atrocità, nei quattro gironi infernali della casa. L’agonia dei ragazzi, i dannati danteschi, non finirà nell’abbraccio dolce della morte, intesa “fisicamente” come fine del dolore, bensì si estenderà “fino ai limiti dell’eternità stessa”, come viene ricordato a una vittima implorante la propria esecuzione.

Il primo capitolo, L’antinferno, vede la selezione dei giovani da parte dei quattro gerarchi, che rappresentano ciascuno le quattro rispettive incarnazioni del Potere. Il Duca (Paolo Bonacelli), metafora del potere aristocratico, Il Monsignore (Giorgio Cataldi), il potere ecclesiastico, L’Eccellenza (Uberto Paolo Quintavalle), il potere giuridico e, infine, il Presidente (Aldo Valletti), il potere industriale/capitalista. Attraverso le quattro allegorie, Pasolini da voce alle sue teorie politiche, oggi più che mai attuali, ribadendo come la società contemporanea sia vittima della schiavitù materialista imposta da una nuova  forma di fascismo, ben più pericoloso e nascosto di quello storico.

Accompagnati da quattro prostitute d’alto bordo, anch’esse di mezza età, sono protetti dai soldati repubblichini, a cui è concesso il privilegio di partecipare attivamente alle sevizie e alle orge, seppur costretti a concedersi a prestazioni sessuali con gli stessi padroni. Le milizie, coetanee dei giovani schiavizzati, rappresentano quindi la sottomissione delle forze di polizia al potere, il loro “braccio armato” (peraltro difesi dallo stesso autore negli anni delle occupazioni studentesche post-sessantottine), nelle cui fila militano adolescenti violenti ma anche animi puri, come il repubblichino innamorato della giovane cameriera africana, appartenente alla servitù ufficiale della casa, la cui presenza alle orge è bandita.

I tre successivi capitoli, Il Girone delle Manie, Il Girone della Merda e il Girone del Sangue affrontano le pulsioni sessuali e i tabù culturali romanzati da De Sade e analizzati da Freud, nel loro aspetto più estremo e violento, spinto oltre il limite stesso della follia.

In un sadico voyeurismo collettivo tra prede e predatori, caratterizzato da un’efferata escalation di violenza fisica e mentale, le vittime (maschi e femmine) sono stuprate in pubblico, sottoposte a incesti, sodomia, coprofagia e, infine, torturate carnalmente con amputazioni ai genitali, scalpi e abominevoli esecuzioni di massa accompagnate da atti necrofili.

Pasolini condivide l’analisi freudiana secondo cui il potere, nella forma estrema della dittatura (a sua volta re-incarnazione culturale dell’ancien regim), dia sfogo alle pulsioni sessuali più oscene e depravate e si concretizzi nella totale umiliazione del sottomesso e nel controllo delle sue angosce. Il concetto di anarchia fascista, teorizzato da Mussolini e ribadito da Pasolini, trova dunque espressione nel potere e nell'idea stessa di stato fascista. Come affermano le parole del Duca: “Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti, la sola vera anarchia è quella del potere". Anarchia del potere, dunque anarchia etica e culturale, che nel quotidiano, invece, abolisce ogni forma di libertà sessuale, compresa l’omosessualità, che diventa pertanto “criminale” quando è praticata nella sua forma più naturale: è il caso delle due giovani ragazze sorprese a far l’amore dal Monsignore e, di conseguenza, punite.

E’ il trionfo vittorioso di tutto ciò che è amorale. Ecco che l’omosessualità pervertita dei gerarchi è oggetto di vanto nell’universo delle orge, mentre quella “pura” del loro popolo umiliato non può che essere  elemento di onta e vergogna. Del resto, è esattamente ciò che avviene nel mondo reale, ancora oggi.

Altro tema significativo è il rapporto con la religione. Da una parte il Monsignore rappresenta le deformazioni paradossali della Chiesa intesa come istituzione,  dall’altra abbiamo “la fede”, simbolo di speranza per il popolo cattolico, ovvero i ragazzi sequestrati: pertanto la preghiera è vietata dai gerarchi. L’iconografia sacra cristiana, tra affreschi, dipinti e sculture diventa quindi un ricettacolo feticista, metafora stessa del rapporto dialettico tra l’ateismo fascista primordiale e la sua “conversione” politica con i Patti Lateranensi.

La visione cattocomunista pasoliniana rivisita il concetto marxista di lotta di classe, nella contrapposizione idilliaca e utopistica, già affrontata nel suo esordio letterario Ragazzi di vita, tra il materialismo fascista e la purezza proletaria. Il fascismo è rappresentato nella sua forma “ortodossa”, come trionfo di quella borghesia più autoritaria e razzista, ricolma di saccente arroganza culturale. Emblematica, pertanto, ne Il Girone delle Manie, la scena in cui i quattro gerarchi, soli e ubriachi, confondono tra citazioni letterarie Baudlaire, Nietzsche e San Paolo: ancora una volta, come per le immagini sacre, l’arte diventa feticcio e la letteratura viene rivendicata ideologicamente come proprietà culturale borghese.

Infine, fascismo razziale (la già citata esecuzione della cameriera di colore), omofobo, misogino e maschilista. Le uniche donne degne di rispetto da parte dei quattro gerarchi sono le loro accompagnatrici-puttane, prive ormai di ogni femminilità e condannate per sempre all’esistenza di spietate muse infernali.

Fascismo come annullamento della vita, dei sentimenti e dell’amore. Ancora una volta, il Duca ricorda come “il limite dell'amore è sempre quello di aver bisogno di un complice (…) la raffinatezza del libertinaggio è quella di essere allo stesso tempo carnefice e vittima”. Dall'assenza dell'amore e dalla dipendenza dalle proprie ossessioni, nasce dunque l'impotenza: tutti i gerarchi ne soffrono; l'unica cura resta nella soddisfazione delle proprie manie, ovvero unico desiderio e ragione di vita, la sola, viscerale, fonte di eccitamento. 

Pasolini, assistito alla fotografia da Tonino Delli Colli, conferisce ad ogni inquadratura le stesse allusioni e significati comunicati dalla scena e dai dialoghi. Il cast tecnico è arricchito dai costumi di Danilo Donati, dalle musiche di Morricone e dalle scenografie di Dante Ferretti, offrendo un carattere decisamente surreale. Sergio Citti contribuì alla stesura della sceneggiatura, alla quale collaborò anche Pupi Avati (non accreditato).

Tra i quattro protagonisti spicca il Duca, interpretato dall’ottimo Paolo Bonacelli, a cui sono conferiti i gesti più simbolici e le frasi più emblematiche. Al suo fianco, il caratterista Aldo Valletti, il cui strabismo accentua l’aspetto insano del Presidente; l’esordiente Giorgio Cataldi (doppiato da Giorgio Caproni), attore non professionista, con l’aria razionalmente folle offerta al Monsignore; infine, lo scrittore Uberto Paolo Quintavalle, amico di Pasolini, nel ruolo di Sua Eccellenza. Tra i doppiatori compare anche Marco Bellocchio.

Uscito nelle sale postumo, “macchiato” dal giallo delle bobine rubate e dal tragico omicidio di Pasolini, il film fu prima censurato, poi condannato per oscenità e ritirato (a farne le spese fu il produttore Aurelio Grimaldi), per poi essere nuovamente ridistribuito una volta persa in appello l’accusa.

Da subito accolto come capolavoro e opera d’arte, è diventato involontariamente il riferimento e il precursore del cinema di genere proliferato a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80, tra cui il naziporno.

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