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He Got Game

Regia di Spike Lee vedi scheda film

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La recensione su He Got Game

di Kurtisonic
6 stelle

Sempre proteso a costruire l’identità degli afroamericani, Spike Lee compie un altro passo in avanti verso l’universalità dei valori umani ma anche verso l’amara parabola discendente della società moderna. Per raggiungere questo obiettivo, Spike Lee unisce ad un melodramma famigliare, la traccia dinamica che trasmette il cinema di genere sportivo, pieno di movimento, di fisicità, di spazialità. Il regista adatta il suo linguaggio visivo consueto, al basket e alle sue regole, ad uno sport fra i più ricchi e amati negli USA dove la quasi totalità dei suoi campioni ha origini afro. Spike non enfatizza troppo il gesto sportivo (anche se la tentazione è forte e lui ama spassionatamente questo gioco), confina l’azione nei campi di strada, in piccoli parchi, sempre delimitati da recinzioni metalliche che sembrano imbrigliare i movimenti e poiché saranno teatro di scena e di confronto, sembrano ghettizzare anche i sentimenti dei protagonisti. Denzel Washington, nel film Jake, è in galera per l’omicidio della moglie, gli viene offerta la possibilità di uno sconto di pena se convincerà il figlio, Jesus, la migliore promessa del basket americano, a scegliere l’università che successivamente lo inserirà nel dorato mondo dello sport professionistico. Nella parte iniziale pur essendo chiara la lettura del racconto che si avvinghierà sul difficile rapporto padre-figlio, Lee alterna situazioni, dialoghi e azione, su scenari dall’atmosfera completamente diversa, dal carcere si passa al college, dall’ambito famigliare ai vicoli dei retrobottega, dalle camere d’albergo di quart’ordine a scene plastiche di gioco. Mentre la narrazione progredisce attraverso istantanee di persone con e senza la palla a spicchi fra le mani che ricordano le inquadrature in bianco e nero di Lola darling, il film sorprende per la sua mancanza d’identità verso un genere preciso, lasciando aperta ogni possibilità. Nonostante Jake ricalchi una certa iconograficità nel ruolo del padre assente ma buono, spietato a fin di bene, primo allenatore del figlio, e omicida un po’ per caso, il film regge sul filo del suo contenuto morale, la descrizione della società afroamericana non è affatto esente dal richiamo della materialità, contagiata come il resto del mondo da un relativismo di valori, compreso quelli affettivi. Seppure il cinema di Spike Lee si presti a schierarsi sempre un po’ tendenziosamente dalla parte dei neri americani, He got the game cresce con l’inevitabile scontro ravvicinato fra i due protagonisti (Jesus è interpretato da un vero giocatore NBA e si vede) e il definitivo commiato avverrà neanche a dirlo con la palla in mano senza cadere nel retorico. Anzi, il finale pur condito da qualche sentimentalismo eccessivo è amaramente saldato fra le mani delle nuove generazioni rappresentate da Jesus, in grado di spezzare un invisibile cordone ombelicale con un destino tragico e beffardo che incombe sui padri e su chi viene a mercanteggiare, nel caso ci siano, i valori esistenziali degli altri.

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