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Anonimo veneziano

Regia di Enrico Maria Salerno vedi scheda film

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La recensione su Anonimo veneziano

di degoffro
6 stelle

Un uomo aspetta alla stazione. Lo sguardo è assorto, pensieroso, forse preoccupato, visibilmente nervoso. Osserva il cartellone con gli orari dei treni. Viene annunciato l'arrivo di un treno da Ferrara. L'uomo compra un mazzo di fiori rossi. Si avvicina al binario dove dovrebbe giungere il treno che attende con ansia e con un sorriso ironico getta i fiori appena acquistati sulle rotaie. Arriva il treno. Tra la folla l'uomo intravede una donna affascinante. Occhiali scuri, dolcevita grigio, cappottino marroncino, assai elegante ma dall'atteggiamento piuttosto freddo, quasi infastidito. "Grazie di essere venuta", le dice cordialmente. "Me l'ha consigliato l'avvocato" è la secca(ta) replica di lei. "C'è un treno fra un'ora, se vuoi rientrare!" riprende lui. "Bene se ti basta un'ora..." I due, Enrico e Valeria, marito e moglie, da tempo lontani ma non ancora nemmeno legalmente separati, si avviano quindi fuori dalla stazione come due sconosciuti: "Dove vuoi che andiamo?" chiede con gentilezza lui. "Se non lo sai tu!" risponde sempre più distaccata ed irritata lei. Comincia così forse il più celebre film sentimentale italiano, quasi contemporaneo all'altrettanto famoso e similare "Love story". Scritto da Giuseppe Berto con il regista Enrico Maria Salerno, attore al suo debutto dietro la macchina da presa, "Anonimo veneziano" è fin troppo sfacciato nello sfruttare la romantica, malinconica ed autunnale ambientazione lagunare, valorizzata dalla notevole fotografia di Marcello Gatti, premiato con il Nastro d'argento, e nel ripercorrere, senza ritegno né misura, tutti i più abusati cliché del genere. Il soggetto, infatti, non brilla per originalità: marito e moglie ai ferri corti, in giro per Venezia rivedono i posti in cui hanno vissuto e così ricordano i momenti del loro felice passato, appianando di colpo gli attriti e riscoprendo la passione di un tempo, soprattutto dopo che lui ha confessato alla moglie il vero motivo per cui l'ha fatta venire a Venezia. Non vuole portarle via il figlio che hanno avuto insieme, né tanto meno chiederle soldi. Vuole dirle che sta per morire a causa di un male incurabile. Eppure il film, strappalacrime, patetico, stucchevole, melenso quanto si vuole, è meno indigesto di quanto si potesse pensare. La prima parte è la migliore. La banale quotidianità dei dialoghi (sul battello, dopo avere lasciato la stazione, si parla, per esempio, di quanto sia unica Venezia simile a "una nave in fondo al mare, bella da morire!") ben si addice all'imbarazzo e alla titubanza iniziali dei due coniugi, tanto che Enrico, musicista dalle molte ambizioni infrante e che ha visto sfumare il suo sogno di diventare direttore d'orchestra, dice a Valeria "sei chiusa come un riccio". E in questo senso si spiegano anche le diverse domande di circostanza sul nuovo lavoro di lei (non più impiegata all'ospedale, si occupa di libri), sul figlio Giorgio di 11 anni che hanno avuto insieme e di cui Enrico si è sempre occupato poco e sul nuovo compagno di Valeria, un noto avvocato di Ferrara con cui ha avuto una figlia, uomo rassicurante e premuroso che le garantisce un'agiata, confortevole, sicura e forse un po’ monotona vita borghese, priva di autentica passione, tanto da confidare al marito che "forse non siamo neanche tanto felici". Il vero amore è stato Enrico. "Sarà andato tutto a rotoli ma nessuno ha mai fatto l'amore come noi due!" infatti sostiene il marito. "Forse è per questo che è finito: era troppo bello per durare." è la rassegnata replica della moglie. Purtroppo però il resto del film si perde in isterici, falsi e ripetitivi battibecchi sentimentali (lei dice un sacco di volte, con scarsa credibilità peraltro, di odiare il marito, più volte ricordano quanto piaceva loro fare l'amore tanto che sembra che facessero solo quello) e risaputi rimandi al passato (il primo incontro all'università, la prima notte d'amore quanto lei era ancora vergine, il ricordo del giorno delle nozze con le voci degli invitati che si rincorrono nella memoria di Valeria, seduta per un fugace pranzo al locale, oggi un po’ triste e decadente, nel quale avevano fatto il ricevimento). Alcuni episodi sono infelici (la finta esibizione alla Fenice con Enrico che avverte un malore, la scena d'amore in cui si sfoga per il triste e doloroso destino che lo attende), altri invece sono troppo pacchiani nella loro spasmodica ricerca di una facile commozione (Enrico tiene la bandiera per alcuni bambini che giocano allegri e spensierati a ruba bandiera, la visita alla vecchia casa ora divenuta sartoria, la corsa in ralenty alla spiaggia dove i due, tanto per cambiare, amoreggiano, l'acquisto di un vestito nuovo per la moglie, episodio che, peraltro, consente la battuta migliore del film, rubata a Proust per cui "Nella vita della maggior parte delle donne, tutto anche il più grande dolore fa capo alla messa in prova di un abito nuovo!"). La regia di Enrico Maria Salerno, nonostante gli sia stato attribuito per l'occasione un David di Donatello speciale, è convenzionale, ingenua, ridondante, anonima. Incapace di dare smalto e vivacità all'asfittico, monocorde ed elementare script, il regista si limita a riprendere una coppia che passeggia per le calli di Venezia, con tanto di giro in gondola, allo stesso modo di un turista amatoriale dotato di videocamera. Quanto agli attori Tony Musante appare apatico e scontato, mentre la brava Florinda Bolkan, premiata con il David di Donatello quale migliore attrice protagonista, trasmette con febbrile trasporto dapprima la freddezza, il distacco ed il sospetto poi la fragilità, l'insicurezza e la passione del suo tormentato personaggio che progressivamente si apre al marito rivelandogli tutto il suo amore. E' innegabile comunque che scatti un minimo coinvolgimento emotivo, specie nella parte finale quando il pathos raggiunge l'apice, complici le funzionali ed azzeccate musiche di Stelvio Cipriani (premiate, a loro volta, con il Nastro d'argento) e soprattutto il concerto in do minore per oboe e archi di Benedetto Marcello riletto con eleganza da Giorgio Gaslini e divenuto celeberrimo con il film tanto da essere ribattezzato anonimo veneziano. Clamoroso successo di pubblico (4° al box office nella stagione 70/71 dietro a tre successoni italiani: "Per grazia ricevuta", "Lo chiamavano Trinità" e "La moglie del prete"), nonostante il divieto ai minori di 14 anni con cui è stato distribuito. Se la frase tormentone di "Love Story" era "Amare significa non dovere mai dire mi dispiace", in "Anonimo veneziano" il dialogo clou si ha prima che i due coniugi entrino nella chiesa sconsacrata per l'esibizione di Enrico. "Non ti ho dato che male!" afferma l'uomo. "Non pensarlo mai, puoi farmi tutto tu!" replica convinta Valeria. "Perché sono tuo marito o perché muoio?" domanda lui. "Perché ti amo!" è l'inequivocabile risposta di lei. Brividi lungo la schiena ma i super romantici non possono che apprezzare e magari anche sottoscrivere. Inesorabilmente datato ma come manifesto di un'epoca (su un muro in una scena si legge l'inequivocabile scritta "No al divorzio") ha ancora una sua ragion d'essere.
Voto: 6

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