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La ballata di Buster Scruggs

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su La ballata di Buster Scruggs

di Malpaso
6 stelle

I Coen tornano a riflettere su alcuni punti focali della loro poetica, ma in La ballata di Buster Scruggs ci sono pochi sprazzi di genio.

La recensione che segue la trovate anche sul mio blog.

 

Vincitore del premio alla migliore sceneggiatura nell’ultima controversa edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, schieratasi palesemente a favore delle nuove produzioni streaming, in aperta opposizione a Cannes, La ballata di Buster Scruggs è l’ultimo lavoro degl’ineffabili fratelli Coen.

 

Concepito inizialmente come una miniserie televisiva di sei puntate, il film soffre pesantemente la sua forma finale indefinita: una raccolta di episodi dalla qualità mediamente buona, ma disomogenei negli intenti, nei toni, nell’incapacità degli autori di prendere una direzione precisa. Va subito puntualizzato che i due capitoli che aprono e chiudono l’opera rasentano il capolavoro: nel primo Tim Blake Nelson interpreta un fuorilegge dalla lingua forbita che pare avere appena visto il precedente Ave, Cesare! (2016) coeniano quando sale sul banco del saloon per destreggiarsi in un divertente ballo di gruppo, mentre nel sesto e ultimo atto cinque personaggi in una diligenza si affrontano a livello retorico, impersonando i tipi umani rappresentati lungo tutto il corso del film in un contesto notturno che presenta impreviste sfumature horror, degna chiusura concettuale di una pellicola che non trova mai realmente una sua quadra.

 

In ordine, ci sono: un pistolero ballerino e narcisista, un rapinatore di banche privato di un giusto processo, un impresario in cerca di fortuna con un attore privo di arti, un cercatore d’oro, un carovaniere che vede in una fanciulla indifesa la promessa di una vita migliore e, infine, la già citata diligenza di cinque persone. Senza rivelare nulla della trama, si può dire che i fratelli Coen non esitino nel lasciare totale via libera alla loro tipica ironia, accompagnata da una forte dose di cinismo: La ballata di Buster Scruggs è il loro ennesimo, ben scritto e superbamente diretto, pessimistico paesaggio umano.

 

A differenza de Il Grinta (2010), che si propose come una riflessione sul genere stesso, quest’ultimo lavoro ambientato nella Frontiera americana abbandona totalmente il western, che qui si riduce a pura esplicitazione scenografica del senso alla base di tutta l’operazione: raccontare la natura immodificabile dell’uomo, crudele, egocentrica ed opportunista. Ed in questo degradante ritratto d’insieme i deboli periscono e la purezza non ha spazio vitale. In questo senso il primo episodio, l’unico avente per protagonista Buster Scruggs, si rivela un vero e proprio colpo di genio: il protagonista è una dicotomia vivente, un uomo divertente e spietato, comico e tragico, convertito alla legge del più forte, in piena armonia con un mondo selvaggio nel quale non fatica ad accompagnare una strage a passi di danza, quindi a morire per ascendere finalmente al cielo.

 

Il problema è che il resto si attesta su una piattezza autoriale che deflagra nello scontato. Ovviamente il giudizio è proporzionato agli autori di cui si sta parlando, dai fratelli Coen ci si aspetta sempre un qualcosa in più che non si riduca alla conferma di un livello comunque già molto alto. Gli spunti ci sono: l’episodio avente per protagonista il bandito impersonato da James Franco è una divertente satira sulla pena di morte e l’inefficienza del sistema giudiziario, mentre l’impresario Liam Neeson sfrutta e spolpa l’attore senza arti (interpretato dal bravissimo Harry Melling, Dudley Dursley nei film di Harry Potter) così come i produttori, o lo show business in generale, non si fanno problemi ad accantonare un artista una volta che questo non attiri più pubblico pagante.

 

La ballata di Buster Scruggs è un’opera con pochi momenti di genialità e tanti tratti didascalici, ma resta pur sempre figlia della penna di due dei migliori sceneggiatori e registi della scena statunitense. Un lavoro minore in una filmografia già pregna di pietre miliari, ma nel quale se ne colgono comunque gli echi e l’aura di grandezza.

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