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Due o tre cose che so di lei

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Due o tre cose che so di lei

di spopola
8 stelle

“Lei” (ormai dovrebbero saperlo tutti, ma credo che sia il caso di ribadirlo con forza ancora una volta per non creare malintesi che potrebbero impedire la giusta lettura interpretativa di questa pellicola tutt’altro che convenzionale anche nella sua struttura) non è una donna. Non è Juliette Manson, la protagonista femminile di questa storia che ha un lavoro, un marito e un figlio e che si prostituisce occasionalmente per integrare il bilancio domestico e soddisfare così i bisogni indotti dal consumismo, ma bensì la città  in cui  vive (Parigi e - in particolare - il quartiere in cui è ubicata la sua abitazione). “Lei” è anche la società dei consumi che riduce tutto a oggetti (persino le persone). “Lei” nel film è anche un pronome che, con la sua molteplicità  di forme, definisce  (in senso negativo) proprio la vita e il (non)senso degli anni in cui è ambientata una vicenda che ha come sfondo la guerra del Vietnam, la Gestapo delle strutture, la morte della bellezza moderna, la legge terribile e disumanizzante dei grandi agglomerati urbani, e dove la circolazione stessa delle idee  arriva spesso al cortocircuito di un pensiero livellato e a senso unico.

 

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Anny Duperey, Marina Vlady

Due o tre cose che so di lei (1966): Anny Duperey, Marina Vlady

Siamo alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, e come si è già detto sopra, la protagonista del film, più che Juliette (che però  fa spesso da cartina di tornasole),  è la città (la Parigi della periferia con i grandi palazzi ripensati o rimessi a nuovo urbanisticamente, nei nuovi quartieri che hanno rivoluzionato il volto stesso della metropoli rendendolo più anonimo e spersonalizzato).

 

E’ proprio partendo da questo dato che Jean-Luc Godard realizza un ambizioso film-saggio. Lo fa,  assemblando materiali molto diversi fra loro (sequenze recitate, interviste, dialoghi, brandelli di realtà) attraverso i quali ripropone e riproduce la frammentazione un po’ artefatta della vita contemporanea.

Cinema brechtiano e militante insomma, si potrebbe dire: Marina Vlady (splendida protagonista della pellicola) si presenta infatti già all’inizio del film dichiarando pubblicamente la propria professione di attrice, e questo prima ancora di diventare personaggio (sarà poi intervistata e ripresa durante tutta la pellicola, a volte come Marina Vlady, altre come Juliette, mantenendo sempre ben distinti i due ruoli).

Anche qui poi, Godard (come del resto accadeva in quasi tutto il suo cinema di quegli anni) ricorre a cartelli e didascalie che variano di significato a seconda della posizione di ripresa, e usa la pubblicità a suo personale uso e consumo ma solo per ribaltarne i contenuti e questo lo aiuta a mettere in piena luce quello che fu definito a suo tempo “il fattore strutturalista del suo cinema” qui inteso come la fusione di elementi eterogenei messi al servizio della rappresentazione critica dell’attualità sociologica di quel periodo.

Marina Vlady, Anny Duperey

Due o tre cose che so di lei (1966): Marina Vlady, Anny Duperey

 

Comme je l’ai dit - sono dichiarazioni dello stesso regista riportate in un commento a Deux ou trois choses que je sais d’elle pubblicato sul numero 1174 de “Les Lettres françaisescon cui l’autore provava a raccontare il progetto e la struttura di un film complesso che mette in scena “une grande mutation comme celle que subit aujord’hui notre civilisation parisienne, et de m’interroger sur le moyens de rendre compte de cette mutation” (un grande cambiamento come quello che sta vivendo la nostra civiltà parigina, e lo fa interrogandosi sui mezzi – e le ragioni –che stanno alla base di questi cambiamenti). L’histoire de Juliette – prosegue poi nel suo commento - ne sera pas racontée en continuità, car il s’agit de décrire, en m?me temps qu’elle, les événemens dont elle fait partie. Il s’agit de décrire un ‘ensamble’.La storia di Juliette (o ciò che rappresenta), non viene raccontata in linea continuativa e consequenziale. E’ utilizzata invece per descrivere in forma fortemente straniante,  gli eventi  topici che la caratterizzano anche simbolicamente mettendo in scena un intero, composito “set” “ con  tutte le inevitabili complicazioni che questo produce soprattutto per lo spettatore costretto a guardare (e interpretare) l’opera in forma totalmente attiva.

Marina Vlady, Roger Montsoret

Due o tre cose che so di lei (1966): Marina Vlady, Roger Montsoret

 

L’idea del film(definito a suo tempo sui L’Unità da Ugo Casiraghi uno dei più agri fra quelli realizzati dal  regista e dove il paesaggio diviene il vero volto delle cose)  nasce da un’inchiesta sulla prostituzione femminile di Catherine Vimonet pubblicata su Le Nouvel Observateur. Il regista però amplifica notevolmente la sua visione poiché come si è già compreso da quanto ho scritto prima, non si limita ad indagare  la vita di Juliette così complessamente legata al tema dell’inchiesta: fra una sequenza sull’intimità della protagonista  e un’intervista alla sua interprete, divaga infatti spesso e sil sofferma a scrutare proprio i lavori di restyling in corso che dovranno dare un nuovo volto a Parigi, l’altro elemento portante (e disturbante)  del racconto.

 Il  risultato che ne esce fuori, è appunto un film-saggio che si sofferma prima ad osservare  (e poi a raccontare in  forma critica) la mutazione nei comportamenti sociali e nei rapporti umani e ad elaborare il tutto in una forma di cinema davvero inusuale (e in certi tratti persino criptica per i suoi continui rimandi all’artificiosità del testo e al rifiuto costante del naturalismo).

Un film davvero figlio dei suoi tempi insomma col quale Godard rinnega di proposito tutte le regole dell’”intrigo, della “story” che fanno parte della tradizionale drammaturgia cinematografica e non solo, perché qui c’è anche la distruzione del “pittoricismo” teatrale della sequenza  (Roberto Alemanno, Cinemasessanta n. 70, 1968): come accade spesso nei grandi film infatti, anche qui non ci sono inquadrature singole “significanti” ma ogni frammento rimanda e si ricollega a un contesto organicamente strutturato, ad un “insieme”, appunto (ancora Alemanno).

Indiscutibilmente insomma Due o tre cose che so di lei, rientra di diritto nella trilogia politica godardiana che comprende anche Made in U.S.A  e La Cinese, e ancor più che in quelli, il regista tende qui ad abbandonare in maniera ancora più chiara la rappresentazione fenomenologica della realtàprivilegiandone invece una sua (personalissima) interpretazione.

Anny Duperey

Due o tre cose che so di lei (1966): Anny Duperey

 

Quale potrebbe l’argomento centrale dell’opera? Probabilmente quello della prostituzione inquadrata però nell’universo corrotto e corruttibile della civiltà dei consumi che ne rappresenta la causa scatenante. E’ tutt’altro che facile definire la cosa  con esattezza  poiché il film non procede mai  in forma lineare, ma sviluppa  attraverso giustapposizioni, connessioni,  analogie che, tanto per fare un esempio molto calzante, mettono sullo stesso piano - grazie all’utilizzo di un efficace e  rigoroso montaggio parallelo -  la prostituzione dell’operaio che si annulla nell’anonima realtà del suo lavoro, e Juliette che vende il suo corpo a un  giornalista americano che confessa di averne  abbastanza del Vietnam edi dover continuare a sguazzare nel suo sangue.

E’ dunque proprio al  montaggio che viene affidato il compito di diventare il supporto ideologico dell’opera in un  percorso (spesso ad ostacoli) in cui Godard tende ad abbandonare la rappresentazione  razionale delle cose per indagare invece sulle cause da cui origina e prende forma questa specie di trasformazione antropologica che investe anche la sfera del sentimento.

Paradossalmente, a volte, attraverso il processo delle analogie, è  ancora il montaggio a farla da padrone: è lui che tiene ben salde nelle sue mani le redini collegando fra loro la compresenza immaginaria di ogni sequenza come se un film così frammentato, fosse da considerarsi invece come un solo, immenso, interminabile piano-sequenza.

E’ dunque proprio nella scelta delle immagini fatte dal regista il valore aggiunto di questa pellicola, tutte finalizzate a fare fare una critica feroce anche al linguaggio cinematografico e alle sue regole codificate (basta guardare  la magnifica scena della tazzina di caffè per comprendere meglio ciò che intendo dire: una tazzina da caffè che assume il senso dell’universo, di una galassia dove i lenti e oscuri movimenti concentrici di un vortice di schiuma,  attraverso il prodigio del montaggio - ancora lui - coadiuvato dal sommesso commento che lo accompagna, riesce a rendere palese l’estrema solitudine esistenziale che si trasforma in un accorato appello alla solidarietà umana(che adesso sappiamo che rimarrà purtroppo inascoltato).

 

Il film (con buona pace di quei critici che vorrebbero trovare pronta e spiattellata su piatto d’argento la verità univoca della tragedia del mondo moderno  - e questo è valido ancora oggi considerando tutto quello che di negativo ci gira ancora intorno) cerca di andare alle radici dei malesseri sociali e delle loro perniciose conseguenze perché qui la sincerità (e la passione) sono aspre e totali, non cercano nessuna mediazione anche se espresse dentro a un’opera apparentemente disorganica fatta di “immagini-cose”,  di “suoni”, di “situazioni” in costante rapporto fra di loro ma che è invece frutto di una ricerca disperante in cerca di risposte ai molti interrogativi che produce, frutto  di una ricerca certosina  fatta attraverso la demitizzazione linguistica del “senso” delle cose ( persone e oggetti) e dove sono proprio gli oggetti inanimati ad avere una consistenza maggiore rispetto a tutto il resto: loro risultano “vivi” al contrario di delle persone  che popolano la pellicola e che, che pur continuando a vivere, sembrano essere già morte.

L’opera è insomma un viaggio nel mare di una oggettività che solo alla fine della visione può essere davvero codificata per quello che realmente è: un universo perduto nei “segni” (non tutti decifrabili) tipici della violenza della civiltà industriale capitalistica e dove ogni soggetto si trasforma nell’oggettività alienante e unidimensionale di vite smarrite fra il cemento e il vetro delle grigie costruzioni della metropoli.

 

E’ in questo scenario desolante dunque che  Juliette (la moglie-prostituta che saltuariamente vende se stessa soltanto per accrescere la sua capacità economica di acquistare oggetti superflui di puro consumo)  trascorre la sua (squallida?) esistenza:  la fisionomia della città è il mio volto dirà in un momento di auto-confessione, e ancora: una cosa che mi fa piangere è che le mie lacrime nessuno le merita. E questo,mentre il paesaggio desolato della città si riflette impietoso sul suo volto implacabilmente vivisezionato dall’occhio impietoso del regista.

Marina Vlady

Due o tre cose che so di lei (1966): Marina Vlady

 

In una pellicola multiforme come questa  insomma si  percepiscono e si ascoltano i rumori disarticolati del mondo del presente  e si finisce così durante la visione, (quasi) per dimenticare Auschwitz, il Vietnam, il “Terzo Mondo” perché  purtroppo il futuro  ci appare ancora più funereo e preoccupante: l’Alphaville di ieri (tanto per citare un’altra grande opera del regista) la si ritrova  infatti (addirittura amplificata) nei segni allucinanti di un domani sempre più incerto ed opprimente e non c’è più bisogno di “fatti”, di storie, dei tragici ricordi delle tragedie passate: basta puntare l’obbiettivo sulle derive di una società ormai allo sfascio per far venire voglia di distruggerla o rinnegarlo definitivamente.

E’ così che  Godard si appropria dei segni di una realtà sempre più disumanizzata dentro alla quale cerca di organizzare la sua resistenza personale con la quale (forse) si illude di poter trasformare la libertà di espressione in potere rivoluzionario che ormai  (e noi ormai purtroppo lo sappiamo molto bene) da troppo tempo ha invece esalato mestamente l’ultimo respiro ed è sempre più difficile (quasi impossibile) cercare di rianimarlo.

Marina Vlady

Due o tre cose che so di lei (1966): Marina Vlady

 

Sinossi (solo per dovere di cronaca poiché si tratta di una pellicola che non si riesce bene a raccontare soltanto con le parole).

 

Juliette abita in uno dei palazzoni della periferia parigina. E’ sposata con due figli e si prostituisce occasionalmente per assecondare il consumismo indotto che lo stipendio del marito, operaio in un garage, non potrebbe soddisfare e il film è il resoconto di una giornata tipo di questa donna e di suo marito:

Juliette che esce di casa coi bambini per depositarli poi presso una specie di babysitter; Juliette che acquista un abito in un grande magazzino e  va a far visita a un’amica che fa la manicure e insieme poi escono per recarsi dal marito e far lavare la macchina. Sempre con l’amica, Juliette raggiunge poi un grande albergo dove si prostituisce a un giornalista americano mentre in  contemporanea, in un bar il marito sta discutendo con una ragazza di sesso e di struttura del linguaggio e a un tavolo vicino un’altra ragazza conversa invece con un famoso scrittore sui problemi di etica e sul comunismo. Da un’altra parte inveceL due curiose figure che sembrano Bouvard e Pécuchet stanno componendo un libro con citazioni tratte dalle più disparate pubblicazioni. La giornata di Juliette termina poi nella camera da letto: lì lei e il marito, completamente indifferenti l’una all’altro, stanno leggendo lui un libro a cui presta la stessa  attenzione straniata di quando coltiva il suo hobby di radioamatore politicizzato; lei una rivista femminile, con l’espressione abulica che non l’abbandona mai, il tutto commentato da una voce fuori campo.

Se vogliamo, la storia privata dei protagonisti è davvero tutta qui, ed è semplicemente lo spaccato dell’alienazione consumistica che il film intende denunciare. Il tutto,  inframmezzato da interviste e commenti che cercano di dare un senso generale ai singoli episodi.  

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