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Quando muore una stella

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Quando muore una stella

di spopola
8 stelle

La crudeltà dello sguardo indagatore e affilato come un bisturi del regista è impietosa: scava in profondità dentro le anomalie (private e pubbliche) dell’industria dello spettacolo e dell’asse egemone del potere). La sua è un’articolata denuncia che mette a nudo il marcio che si nasconde dietro la facciata del corrotto mondo dello show business.

Premessa

 

Fu il grande successo internazionale ottenuto con Quella sporca dozzinache nel 1968 diede ad Aldrich la possibilità concreta di accarezzare di nuovo il sogno di una ritrovata indipendenza produttiva, un impegno ambiziosissimo che nella rinnovata progettualità operativa del regista, lo avrebbe dovuto portare a realizzare in breve tempo una nutrita serie di opere, ma che – partito subito con due clamorosi insuccessi di cassetta - si rivelò invece fallimentare almeno sotto il profilo economico, così da costringerlo solo dopo pochi anni di attività, per altro in “scala ridotta” rispetto alle ardite ipotesi di partenza, ad arrendersi e a vendere di nuovo gli studios, proprio al fine di limitare le ingenti perdite subite e scongiurare così una vera e propria catastrofe finanziaria.

 

Sotto il profilo artistico però, il periodo è stato invece molto fruttuoso (in particolare proprio quel 1968 che si rivelerà per lui un anno di ritrovata creatività davvero speciale, che gli consentirà di realizzare uno straordinario, caustico dittico di rara potenza e cattiveria, come quello formato da L’assassinio di Sister George e da questo The Legend of Lylah Clare (goffamente rititolato qui in Italia con la solita dose di pressappochismo, Quando muore una stella), due pellicole per molti versi complementari (o che in qualche modo si “rispecchiano” l’una nell’altra), ascrivibili indiscutibilmente fra i risultati più perversamente dissacranti di tutta la sua carriera: oltre che sul malsano mondo dello spettacolo, la cinepresa si concentra infatti su scomode “innominabili” diversità (sessuali e  di pensiero), varcando le soglie del “proibito” per scandagliare e confrontarsi senza reticenti pudori (infrangendo così molti “inconfessabili” tabù non ancora completamente sdoganati in quegli anni), con tematiche scottanti e inusuali, come quelle del lesbismo (che già altre volte avevano lambito il suo cinema, ma mai in maniera così centrale e prioritaria), o della necrofilia feticista.

La crudeltà astiosa del suo sguardo indagatore, è impietosa in entrambe le opere, due percorsi paralleli utilizzati come un affilato bisturi per scavare ancor più in profondità dentro le anomalie (private, dell’industria dello spettacolo o dell’asse portante ed egemone del potere), portando così davvero “fino alle estreme conseguenze”, quella implacabile, feroce analisi del sistema (che diventa ancora una volta constatazione e “denuncia”) che fino dagli esordi, gli aveva  permesso di realizzare un articolato discorso critico finalizzato a mettere a nudo (adesso con più accesa passione e perfida consapevolezza di quanto non accadesse per esempio con il già vigoroso pamphlet de Il grande coltello) tutto il marcio, il sudiciume, i compromessi e le malversazioni che si nascondono dietro la facciata (e dentro l’anima) di un’esecrata ed esecrabile organizzazione produttiva (mai completamente digerita e a cui troppo spesso si era dovuto assoggettare accettandone le imposizioni e i limiti) stigmatizzata con la prepotenza accusatoria un po’ barocca del suo personalissimo, debordante “modo” di fare un cinema lucidamente “provocatorio”, che si estrinseca questa volta in un urticante quanto disincantato attacco all’industria televisiva in espansione (Sister George) e al rigido moralismo conformista di Hollywood (Lylah Clare).

Il tutto diventa però anche una graffiante metafora sul potere e sulla influenza affabulatrice delle immagini, riconducibile proprio alla deprecabile logica in uso della manipolazione cinicamente consapevole “dell’oggetto umano” da parte di chi, infischiandosene delle conseguenze (i cosiddetti “danni collaterali” che può generare), approfitta scientemente della suggestione collettiva e pilotata delle apparenze acclarate come “verità” inoppugnabili, per farle diventare l’elemento determinante e necessario per il raggiungimento del successo e del conseguente profitto anche economico. Perché il cinema che Aldrich mette sulla graticola, è in effetti proprio quello della “vecchia Hollywood”, basato su una rigida gerarchia produttiva che si nutriva e traeva vantaggio principalmente dal fanatismo adulatorio e identificativo rivolto soprattutto in direzione delle “star”, utilizzate (e vincolate), fra reificazione e mercificazione commerciale (e proprio per il loro essere state trasformate in “icone” da venerare ad ogni costo), dal condizionamento mediatico e senza scrupoli dello show business, che se nel frattempo si è certamente modificato nelle sue modalità di approccio, lo ha fatto decisamente in peggio e scendendo per questo ancora più in basso (è significativamente esplicativa al riguardo, la brutale battuta che ne Il grande coltello il produttore Rod Steiger rivolge al reticente Jack Palance per cercare di convincerlo a firmare il contratto, che suona più o meno così - cito a memoria -: Ho bisogno del tuo corpo, non del tuo cervello o delle tue idee: è solo quello che mi interessa).

 

Come ho già accennato, sono però al tempo stesso anche due pellicole che analizzano le ambigue pulsioni comportamentali che si mimetizzano dietro complesse personalità “carnali”, fra la finzione della rappresentazione pubblica che le occulta volutamente, e la realtà squallidamente consapevole del proprio vivere quotidiano che invece le amplifica fino a farle esplodere e divergere verso il dramma e la tragedia (e ancora una volta è soprattutto il mondo femminile quello portato in primo piano e che ne fa le spese più dirette e definitive).

Forse imperfette (per lo meno Lylah Clare imperfetto lo è per più di una ragione), ma comunque estreme, scomode e sgradevoli, risultano in ultima analisi persino più destabilizzanti e ”inquietanti” (mi verrebbe da dire “detestabili” se non temessi di essere frainteso sul significato da attribuire in questo caso alla parola) di titoli come Che fine ha fatto Baby Jane?o anche Piano, piano… dolce Carlotta che raccontavano certamente anch’esse il putridume di un analogo disfacimento morale  (soprattutto Baby Jane), ma più esteriorizzato, visualizzato cioè principalmente nelle deformazioni grottesche delle figure, così da renderlo più accettabilmente “comprensibile” e in fondo più rassicurante, perché meno indelebilmente radicato nella profondità cosciente delle anime, di quanto non si percepisca invece questa volta (il che la dice lunga proprio in relazione al rifiuto di un pubblico spaventato e  sulla difensiva, poco disponibile a mettersi in discussione su tematiche così dichiaratamente esposte, che ne decretò la clamorosa, conseguente - forse inevitabile - debacle al botteghino).

 

 

Il film

 

Il soggetto si basa su un originale televisivo dallo stesso titolo di Robert Thom e Edward de Blasio già interpretato per il piccolo schermo da Tuesday Weld, “revisionato” e riscritto però da uno dei fedelissimi sceneggiatori di Aldrich, oltre che suo amico di vecchia data (anch’esso reduce con tutta la sua famiglia dalla terribile esperienza della lunga emarginazione maccartista, proprio per il fatto di essere stato incluso nella mai sufficientemente deprecata black list). Mi riferisco ovviamente a Hugo Butler, ancora una volta coadiuvato nel suo lavoro di scrittura creativa, dall’efficiente contributo della moglie Jean Rouverol. Alla sceneggiatura però (ed è un elemento tutt’altro che secondario), pur non accreditato (“generosamente” ha preferito restarne fuori per dare maggior visibilità agli altri due nomi ed aiutarli così nella loro “riabilitazione” artistica), ha contribuito in maniera determinante anche Lukas Keller (che sarà l’adattatore anche di Sister George, e che aveva sceneggiato in precedenza fra le altre cose, opere come Baby Janee The Dirty Dozen): lo si riconosce perfettamente proprio dall’inconfondibile tratto della sua penna e dai segni distintivi che avvicinano questa pellicola in una ipotetica continuità di un uniforme percorso concentrato ancora una volta sulla tematica contrapposta e conflittuale di “finzione illusoria” e “realtà”, non solo, come già accennato, a Sister George, ma anche agli altri due titoli sopra menzionati (e per The Dirty Dozenè significativo il fatto che proprio nel “pellegrinaggio” iniziale di Elsa sui “luoghi santi” della Mecca cinematografica, venga evidenziata in primo piano l’insegna luminescente che ne reclamizza la proiezione in sala, tutt’altro che una casualità o un vezzo citazionista, ma la dichiarata volontà di “comunicare” una corrispondente omogeneità di visione anche con modalità e approcci così differenziati: io avverto infatti proprio in questo suo esplicito rimando al film che immediatamente precede Lylah Clare, l’intenzione programmatica di segnalare e confermare la coerenza di un’analoga matrice ispirativa, che coinvolge e “unifica” il pensiero di due lavori  che potrebbero sembrare persino antitetici e per i quali anche gli esiti commerciali si riveleranno diametralmente opposti, ma che in fondo hanno la stessa anima. Aldrich sembra così voler strizzare maliziosamente l’occhio al pubblico per suggerire implicitamente che quando si è costretti a confrontarsi col sistema, se si vive di “questo” lavoro, a volte sono inevitabili scelte solo in apparenza non del tutto conformi - o meglio “comprensibili” e “condivisibili” - ma se si mette in moto l’intelligenza, gli stessi concetti si possono esprimere sempre e comunque, farli trasparire dall’impostazione e “fra le righe” anche quando la materia è più sfuggente e anomala, perché l’importante non è “ciò” che si racconta, ma “come” lo si rappresenta e interpreta, la visione delle cose che si è in grado di mediare per veicolare il messaggio che rimane il fondamentale elemento di confronto e di valutazione).

 

Risulta dunque a mio avviso chiarissimo individuare gli elementi che possono aver attirato l’attenzione di Aldrich verso questo rischioso soggetto un po’ kitch nelle sue implicazioni mortuarie e improbabilmente surreali, nonostante che già a quel momento fosse difficilissimo immaginare (e Aldrich lo ha certamente messo in conto proprio per il taglio “speciale” che ha saputa dare alla sua nuova fatica) che si potesse dire davvero qualcosa di inedito su un argomento così vivisezionato in tutte le sue componenti dalla messe di opere già disponibili, non solo cinematografiche (oltre Il grande coltelloda Odets, Il bruto e la bella di Minnelli, Viale del tramontodi Wilder, le varie edizioni di E’ nata una stellaa partire dal format originale di A che prezzo Hollywood? di Cukoro La contessa scalza di Mankiewicz) ma anche letterarie (Odets appunto, senza dimenticare il Fitzgerald de Gli ultimi fuochi, il Nathaniel West de Il giorno della locustaentrambi in anni successivi poi tradotti per lo schermo da Kazan e Schlesinger -  e lo Schulbergdi Perché corre Sammy?, un romanzo poco noto, ma che dovrebbe essere recuperato da tutti coloro che sono interessati all’argomento “cinema”, visto che il libro è disponibile anche nelle nostrane librerie per i caratteri della Sellerio, proprio per il suo essere documento realistico e appassionato di un’epoca e di un mondo, raccontato senza peli sulla lingua da un altro dei suoi diretti protagonisti, visto che Schulberg è stato sceneggiatore di primo piano, autore fra gli altri degli script di Un volto fra la folla e Fronte del portoper il quale vinse addirittura un Oscar).

C’era veramente ben poco da scoprire e denunciare ancora: la “scandalistica” disumanità delle columnist hollywoodiane, l’asineria e il pressappochismo opportunista dei produttori, l’egocentrismo assoluto dei registi, l’avidità degli agenti, l’essere in pratica “carne da macello” o poco più degli attori, e così via discorrendo, erano tutti elementi già ampiamente scandagliati, conosciuti ed esecrati per poter stupire (o indignare) ulteriormente.

Niente di nuovo sul fronte occidentale quindi, ma Aldrich che continuava a macerarsi nel suo inestinguibile livore per i molti conti rimasti in sospeso mai del tutto regolati fino in fondo, anche a rischio di risultare ripetitivo e un pò prevedibile, non poteva certo lasciarsi scappare la possibilità concreta offerta da una storia che era in pratica un compendio e un ripasso di tutte le magagne e le devianze che continuavano ad inquinare il potere egemone degli studios, tanto più che erano presenti elementi concreti per “azzardare” acidi paragoni identificativi di immediata fruizione con il reale che avrebbero potuto sollecitare la curiosità critica dello spettatore “giudicante”.

Tanto per fare degli esempi concreti, nel personaggio della “straniera” Lylah, tedesca di nascita e fatta star dal genio di una mente, si potrebbe benissimo leggere in filigrana una combinazione mediata fra Marlene Dietrich e Greta Garbo (e con la Garbo, se non ricordo male, nel film c’è anche un riferimento interpretativo che la accomuna implicitamente: il personaggio di Anna Christie), entrambe arrivate a Hollywood dall’Europa al seguito di registi/mentori: il grande Josef von Sternerg nel primo caso, Mauritz Stiller nel secondo, una chiara evidenza citazionista che ci porta immediatamente in direzione Zarkan (ma il “perfezionismo maniacale” che lo caratterizza in questo Quando muore una stella , il suo dittatorialismo assoluto sulla scena, può chiamare in causa anche la straordinaria personalità di un Erich von Stroheim solo un pò meno sinistro ma molto più edonista).

Continuando il giochetto, nell’ottuso e grossolano produttore di Ernest Borgnine, si riverbera certamente di nuovo il fosco riflesso di Harry Cohn, l’infido magnate della Columbia già utilizzato come modello in negativo per Il grande coltello, mentrela giornalista del gossip vizioso interpretata da Coral Browne, è indiscutibilmente una versione nemmeno tanto amplificata nelle sue velenose meschinità, di Hedda Hopper, vera e propria fautrice di “successi e di cadute” a suo piacimento e discrezionalità. Persino il lesbismo dell’insegnante di dizione interpretata da Rossella Falk, potrebbe essere in buona parte modellato sulla figura di Natasha Lytnesse, prima insegnante di recitazione di Marilyn Monroe, alla quale la diva sembra sia stata legata per un certo periodo proprio da un rapporto sentimentale di tale natura.

Non c’è però mai niente di palesemente “diretto”, nulla che rappresenti davvero un inequivocabile riferimento che possa certificare una interpretazione così chiara e a senso unico di tutto l’apparato, perché il film poggia sull’originalità assoluta di una messa in scena “sporca”, stravagante ed eccessivamente grandguignolesca da rasentare il trash (ma non la caricatura o la parodia), gioca le sue carte migliori proprio nel clima “sfatto”, putrescente che immerge il tutto in una atmosfera malsana, quasi maleodorante, e ne fa una vera e propria “orazione funebre” che consente al regista di declamare il suo de profundis, e di gridare un nuovo, feroce j’accuse. E per raggiungere il suo scopo, lascia questa volta in secondo piano l’aspetto sociale della condizione per concentrare l’interesse e l’attenzione su una realtà “distorta” più psicologicamente sfaccettata e stratificata nei suoi pericolosi coinvolgimenti emotivi (diversità sessuali, schizofrenia, sdoppiamento della personalità, perversioni, feticismo e necrofilia, appunto) che sorreggono l’impalcatura dell’impianto narrativo e lo rendono un melodramma assoluto davvero a “fosche tinte”.

Ne esce fuori così un film anomalo nella forma e nelle convenzioni, con il suo intrecciarsi di verità e finzioni che si riflettono l’una nelle altre come in due specchi deformanti che amplificano la negatività  di un mondo – quello dell’industria cinematografica appunto -  visto come una disumana fabbrica di mostri e mostruosità.

 

Il risultato complessivo però risulta più discontinuo e meno compatto di altre opere del regista: la pellicola ha infatti un andamento che non “sposa” un registro univoco di rappresentazione, ma modifica spesso il passo con continui, improvvisi, quanto inaspettati cambi di tono narrativo che possono un po’ disorientare lo spettatore, alternando momenti più insipidi e corrivi, quasi di raccordo narrativo, a scene memorabili che fanno percepire chiaramente il ruggito del leone (il clima “cimiteriale” dell’iniziale passeggiata ricognitiva alla ricerca delle radici della “leggenda” di un’Elsa non ancora icona dell’altra, dall’Hollywood Boulevard al Grauman’s Chinese Theatre, con i nomi dei divi defunti, le impronte delle loro estremità e le relative dediche “celebrative” incise sul marciapiede e immortalate nel cemento come su una lapide: non un casuale percorso esplorativo, ma una vera e propria “dichiarazione di intenti”, visto che per arrivare alla Clare, Aldrich sceglie di soffermarsi sui nomi “chiacchierati” e non conformi come quelli di Rodolfo Valentino e Jean Harlow, fino a posare lo sguardo “rivelatore” sulla stella un po’ corrosa dal tempo dedicata a quell’epitome di “scandalosità” hollywoodiana per antonomasia, rispondente al nome di Fatty Arbuckle; ma anche tutte le parti che evidenziano con una intrigante, avvolgente, camaleontica commistione di stili e di punti di vista, la progressiva disintegrazione della personalità della giovane attrice e l’attrazione fatale verso “l’altra”; o ancora l’amplesso nella camera  tappezzata dalle foto della defunta Lylah e i flashback delle tante verità su quella lontana morte “accidentale”, deformati da un “immaginario” schematismo elementare che sembra voler citare le modalità “figurative” - in un certo senso astrattamente (ir)reali - utilizzate per risolvere e rappresentare la memoria di ciò che resta del ricordo della morte di Sebastian nel finale di Improvvisamente, l’estate scorsadi Mankiewicz, autore anche del già citato La contessa scalza, che è certamente un altro degli importanti riferimenti tenuto in evidenza per la contrapposizione delle divergenti letture di in fatto riproposto più volte nelle cangianti e approssimative corrispondenze di differenziate prospettive non solo di visuale, ma anche e soprattutto di comodo).

L’equilibrio perfetto però, la sublimazione assoluta nell’arte del messaggio, la si riscontra nella genialità assoluta della sequenza conclusiva, quella dello spot promozionale sul cibo per cani, per intendersi, che diventa davvero la sintesi perfetta e straniante di tutto il narrato nel suo inesorabile trasformarsi in un incubo grottescamente allucinato che sa di “cannibalismo” allegorico, un vero capolavoro di sintesi e di creatività, che da sola varrebbe la visione dell’intero film, da quanto è ingegnosa, velenosa ed eversiva, appannata soltanto nella valutazione complessiva del risultato, da quello che potremmo definire davvero la pecca maggiore dell’opera, che riguarda proprio un punto nevralgico come quello della recitazione: questa volta nessun interprete è davvero memorabile, e se molti di loro risultano per lo meno accettabili, pur se abbastanza disomogenei nella resa, è proprio nei due interpreti principali che si rilevano le maggiori lacune. Se possiamo considerare Finch solo un tantino distratto (o poco convinto del ruolo) e di conseguenza meno efficace e abbastanza al di sotto dei suoi abituali standard interpretativi (resta così in superficie che ci rappresenta solo la “maniera” ma mai davvero il “senso” del personaggio), è nella protagonista che si evidenziano purtroppo le dolenti note della inadeguatezza (e il danno in altre mani risulterebbe addirittura “irreparabile”). Perché Kim Novak, ancora bellissima nonostante i suoi 35 anni di età che non erano davvero pochi per quei tempi, è scolorita e inerte, assolutamente inidonea a trasmettere e rendere credibile il viaggio di avvicinamento che è chiamata ad intraprendere e rappresentare, quella trasformazione angosciante e progressiva verso il mito che non ha nulla della “trivialità” ammaliante e del magnetismo avvolgente che dovrebbe emettere la personalità straripante di Lylah, il su essere “anomala” nei sentimenti e nei rapporti. Non basta infatti il cambiamento del colore dei capelli o qualche stereotipato posizionamento del corpo a fare la differenza: al di là della postura, decisamente molto più “atteggiata” nella seconda parte, non si rilevano differenze sostanziali fra l’ex trapezista aspirante attrice figlia di un predicatore dell’inizio e la recuperata figura finale della star della quale non ha né la grandiosità né il fascino.

C’era bisogno insomma di “tutt’altra stoffa e talento” tutte qualità che nella Novak latitano persino nella scena clou della “morte filmata” che risulta totalmente “asciugata” di pathos e di emozione e che solo la sequenza dello spot sopra citata recupera in tutta la sua crudeltà. Il suo non essere all’altezza del compito, finisce così per inficiare pesantemente la credibilità della storia (certamente una delle ragioni che fornirono ai denigratori - per lo meno nell’immediato, visto che per fortuna il tempo ha poi in parte ristabilito gli equilibri e riabilitato il lavoro introspettivo del regista – l’alibi per liquidare il tutto con supponente superficialità), non tanto perché non risulta credibilmente accettabile la traslazione, quanto per l’impossibilita di riconoscere come veritiera la personalità di quella diva d’altri tempi, che rimane privata proprio della principale caratteristica che dovrebbe definirla, più esattamente, la conturbante ambiguità di una figura trasportata dallo squallore di un insano bordello per pervertiti e perversioni sessuali dove esercitava in origine la sua professione, ai fasti deliranti del fanatismo della star che incanta le platee e diventa persino “leggenda”.

Aldrich è stato comunque sempre sornionamente magnanimo nei suoi confronti, difendendo dai giustificati attacchi la performance dell’attrice, arrivando persino a dichiararsi entusiasta della sua resa (ha l’innocenza e la bellezza negli occhi, ma scrutando meglio sotto la superficie traspare una straordinaria sensualità. Quel misto insomma di  ghiaccio e fuoco richiesto dal personaggio, affermerà in un’intervista ad Edwin T. Miller e Eugene L. Miller, pubblicata nel volume The Films and Career of Robert Aldrich, Knossiville, Tennessee, 1986).

Forse ha semplicemente dovuto fare buon viso a cattiva sorte, visto che non era stata questa nemmeno per lui la prima scelta: gli orientamenti originali lo avevano indirizzato infatti verso Jeanne Moreau, che sarebbe stata di gran lunga più pertinente ed appropriata, ma tramontata questa ipotesi affascinante di un “connubio” che avrebbe potuto davvero fare scintille per l’indisponibilità pratica dell’attrice, forse il ripiegamento sulla Novak, era quasi inevitabile per le analogie che avvicinavano questa storia (il “doppio”, “la vertigine” e l’attrazione mortale del “vuoto”) a  La donna che visse due voltedi Hitchcock(un’altra, ma in questo caso più azzeccata, “seconda scelta”, quella della Novak in quella memorabile pellicola).

Per il resto, tutto funziona al meglio, visto che i collaboratori utilizzati (fotografia, montaggio, ecc.) sono quelli abituali del regista e lavorano come al solito in perfetta sintonia di intenti e di risultati.

 

La storia (attenzione: SPOILER)

 

Elsa Brinkmann è una giovane, promettente attrice ancora sconosciuta che ha una singolare somiglianza con la famosissima star Lylah Clare, morta in un oscuro incidente qualche anno prima. Il press-agent Bart Langner pensa così di poter sfruttare questa inusuale corrispondenza dei tratti somatici fra le due donne, per riuscire finalmente a convincere il regista Lewis Zarkan che aveva creato la leggenda della Clare diventandone anche suo marito, a dirigere un film su “quella storia” e a utilizzare  l’attricetta non solo per interpretarne il personaggio, ma per far rivivere attraverso di lei, proprio “il mito” della defunta stella. Dapprima recalcitrante, ma poi colpito  dal carattere di Elsa e dal suo essere da subito attratta e quasi soggiogata dalla personalità di colei che dovrebbe rappresentare sullo schermo, l’uomo decide di accettare la sfida. Inizia così il progressivo percorso di avvicinamento identificativo fra Elsa e Lylah che sempre più profondamente “assume le caratteristiche” anche psicologiche del “modello”: utilizzando carisma e ascendente, Zarkan riesce infatti a “trasformare” davvero Elsa in una copia perfetta della defunta, a plagiarla così profondamente da farla diventare praticamente una sua ipotetica “reincarnazione”. Sempre più coinvolta in questo paradossale gioco feticistico/necrofilo, Elsa/Lilah (nel frattempo si è ricreato anche il controverso rapporto sentimentale con il suo Pigmalione) è comunque ossessionata dalla necessità di conoscere davvero le reali modalità del misterioso incidente che ha portato alla morte dell’attrice (un avvenimento traumatico che ciascuno racconta e ricostruisce dal “proprio punto di vista” e con molte reticenze e “accomodamenti” omissivi per nascondere “scandalose devianze”, colpe, complicità e responsabilità oggettive). Le divergenti verità che ne emergono fanno lentamente venire a galla l’effettiva natura dei fatti che solo nel finale si chiariranno definitivamente, una scoperta che getterà una sconcertante, ambigua luce proprio sui grovigli dei rapporti che hanno unito e legano ancora tutti i personaggi che continuano a popolare la casa di Zarkan e che avrà una drammatica conseguenza). Messa in moto la macchina produttiva e mediatica, si arriverà così a girare la scena conclusiva che Elsa non riuscirà ad interpretare con sufficiente veridicità nella maniera prevista dal copione, quasi che avvertisse l’esistenza di qualcosa di stonato nella ricostruzione dell’evento. Zarkan allora decide di modificare il tutto trasferendo l’azione sotto il tendone di un circo: dopo un drammatico confronto con l’uomo, Elsa sale così sul trapezio, ma mentre sta per ripetere il suo esercizio acrobatico, suggestionata dalle parole di Zarkan che la inducono a guardare giù, verso il pubblico, e ormai totalmente dentro il transfer identificativo che la trasforma in Lylah, ha come una vertigine e cade rovinosamente, rimbalzando sulla rete di protezione fino a terra, rompendosi così l’osso del collo, mentre la cinepresa continua a riprendere sadicamente fino all’ultimo respiro la sua agonia, fissando “la verità della morte” sulla pellicola e la sua ultima dichiarazione d’amore, che porterà il film al trionfo in sala, la sera della prima, mentre forse fra le quinte è in agguato un’altra inevitabile tragedia.

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