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Wajib - Invito al matrimonio

Regia di Annemarie Jacir vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Wajib - Invito al matrimonio

di yume
8 stelle

Annemarie Jacir porta sullo schermo i suoi ricordi di giovinezza, è un Paese complesso quello che filma ma non giudica, contraddittorio e lacerato, di cui gli intellettuali di altri Paesi parlano tanto, ma solo chi ci vive sa veramente com’è.

locandina

Wajib - Invito al matrimonio (2017): locandina

Israele, Nazareth, quartieri arabi.

Nell’abitacolo di una vecchia macchina l’autoradio gracchia di scontri a Ramallah, ma poi l’audiocassetta passa ai Procol Harum, A whiter shadow of pale.

 Ricordi? L’ascoltavamo sempre da piccoli, fa il ragazzo alla guida al padre seduto vicino.

Mohammad Bakri, Saleh Bakri

Wajib - Invito al matrimonio (2017): Mohammad Bakri, Saleh Bakri

Un’auto con molte stagioni alle spalle gira per strade consumate dal tempo, la spazzatura sui marciapiedi aspetta paziente che qualche camion la raccolga, vecchie case guardano rassegnate il traffico caotico, teloni di plastica coprono qualche bellezza residua, il degrado urbanistico tipico di ogni sud del mondo è la cifra distintiva.

Un padre sessantenne dal cuore malato, incallito fumatore costretto a fumare di nascosto e un figlio trentenne, bel ragazzo con codino e pantaloni rossi alla moda occidentale, stanno compiendo un "dovere", Wajib, imposto da antiche tradizioni: consegnare di persona gli inviti al matrimonio della figlia e sorella Amal.

 

La madre dovrebbe arrivare presto in aereo da qualche posto lontano dove ebbe il coraggio di andarsene tanto tempo fa con un nuovo compagno sfidando uomini e tabù, la giovane Amal è solo una vocina al cellulare e in una breve sequenza, gli invitati sfilano in una galleria di microsequenze dove sbirciamo mondi che appaiono e scompaiono alla velocità della vita, due soldati israeliani siedono al tavolo vicino nella vecchia osteria dove i due si fermano all’ora di pranzo. Sono armati, non lasciano il fucile neanche per mangiare, Shadi, il giovane, li guarda imbronciato, loro guardano lui, poi si passa oltre.

 

Grande merito di questo film palestinese, candidato agli Oscar come miglior film straniero ma non entrato nella selezione ufficiale, vincitore di una lunga serie di premi e riconoscimenti a Locarno Dubaï, Londra, Amiens e Montpellier è la laconicità.

Di parole e di immagini, sulla scena solo la coppia padre figlio che girano in auto nel raggio di pochi chilometri, qualche passaggio fugace di amici o parenti a cui danno l’invito, anche la guerra infinita fra Israele e Palestina sembra una vecchia abitudine a cui ci si è rassegnati, sui ricordi del passato qualche breve cenno, metabolizzato dal tempo trova spazio nei lunghi silenzi più che nelle parole.

 

Saleh Bakri, Mohammad Bakri

Wajib - Invito al matrimonio (2017): Saleh Bakri, Mohammad Bakri

Un presente piatto, il passato rimosso, un futuro che non si riesce ad immaginare, Wajib significa “dovere”, ma è una parola stanca, consunta da un logorìo che l’ha svuotata di senso, consegnare inviti a mano non basta a restituirle valore se i valori si sono alterati e la convivenza un rituale a cui si finge di credere mentre piuttosto si tira a campare con qualche espediente per non annegare del tutto.

Shadi (Saleh Bakri), il figlio, è arrivato dall’Italia per il matrimonio, ma molto probabilmente non tornerà mai a vivere in Palestina, è in esilio volontario e irrinunciabile, fa l’ architetto, dice lui, “poco creativo” , ma guadagna abbastanza e ha una compagna che il padre cerca in tutti i modi di ignorare nella speranza che qualche bellezza palestinese lo trattenga di nuovo a casa.

Abu Shadi (Mohammad Bakri), il padre, è insegnante, alunni vecchi e nuovi lo salutano per strada, salve prof, vuol diventare preside e allora deve invitare anche l’ebreo che, si sa, è uno che controlla i palestinesi, un informatore, in altre parole una spia, ma senza i suoi buoni uffici non si fa carriera da quelle parti.

Tra i due avvertiamo una tensione sotterranea, scoppia a tratti qualche disputa ma non si cade mai nel mélo, la famiglia disfunzionale fa parte dello scenario dei tempi.

 

Annemarie Jacir porta sullo schermo i suoi ricordi di giovinezza, è un Paese complesso quello che filma ma non giudica, contraddittorio e lacerato, di cui gli intellettuali di altri Paesi parlano tanto, ma solo chi ci vive sa veramente com’è.

Lo sguardo è disincantato, non si serve del racconto per far politica ma, inevitabilmente, la politica entra di rimbalzo, dietro e dentro ogni storia, ad ogni angolo di strada,.

E’ la vita reale che scivola via con le sue piccole miserie quotidiane, lì come in ogni altra parte del mondo, compromessi, delusioni, solitudini, nulla di nuovo sotto il sole. C’è anche spazio per riderne un po’, un umorismo involontario, perché della vita si può anche ridere, a volte.

C’è un volersi bene che non si riesce a dire e c’è un odio troppo profondo per lasciare che esploda, c’è un equilibrio fragile che non bisogna rompere, una specie di patto muto con la vita per paura della morte.

Ci siamo tutti noi, in Palestina o altrove, stessi smarrimenti e debolezze, qualche sorriso e qualche lacrima trattenuta, magari anche una guerra in corso, ma alla distanza di sicurezza, la vita va avanti lo stesso, è la Storia che è sfuggita di mano.

 

E a proposito di cinema palestinese nel 1988 il regista Jibnil Awad, nel corso di una tavola rotonda promossa dalla rivista "al-Alam", affermava:
Senza dubbio il cinema palestinese, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta, ha svolto una funzione molto importante ed ha raggiunto un prestigio internazionale non indifferente. Tuttavia esso deve ancora giungere ad un livello sufficientemente alto di maturità linguistica ed è ancora prigioniero dello stile proprio dell’argomentazione politica. La realtà palestinese è molto ricca e complessa ed il cinema, rivolgendosi ad essa, deve essere in grado di coglierne i diversi aspetti e di ricavarne trame ed argomenti in cui l’elemento estetico si sposi con la riflessione propriamente politica. Il cinema deve impegnarsi affinché al popolo palestinese siano restituiti i diritti perduti e pretendere di allinearsi ad un più alto livello espressivo.” (cit. da Il cinema palestinese di Andrea Morini, Erfan Rashid, Anna Di Martino e Adriano Aprà in "Il cinema dei Paesi Arabi"?, Marsilio, 1993).

 

A distanza di trent’anni il traguardo cinematografico sembra raggiunto, quanto al resto sospendiamo il giudizio.

 

www.paoladi giuseppe.it

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