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Un borghese piccolo piccolo

Regia di Mario Monicelli vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un borghese piccolo piccolo

di frankwalker
8 stelle

Nel pieno di una commedia all’italiana prossima alla conclusione, di cui elargisce mestamente gli ultimi scampoli, imminenti sono i segnali di un cambiamento che si ripercuote, a mo’ di riflesso sociale e politico, sulla successiva produzione cinematografica nazionale.
Volenti o nolenti, i colonnelli della risata e i loro pigmalioni sono costretti a lasciare spazio a nuove leve, a quella fucina di giovani autori che, pur talentuosi, smorzano i toni ferocemente ilari per una trattazione più austera, seriosa, accesa. E’ il momento di un secondo ripensamento, raccontato da chi tale periodo lo sente più vicino, giacché lo vive in prima persona: l’epoca in cui gli scontri e i conflitti, anche drastici, si ripercuotono sulle opere dei Bertolucci, dei Faenza, dei Giordana, dei Moretti.
I primi sintomi di questo cambiamento sono l’epitaffio di quel glorioso genere in cui il “boom” economico anni Sessanta e i successivi sviluppi, in positivo o in negativo, erano spunto per pamphlet narrati con l’arma di un’ironia beffarda e pungente. Ma all’interno di opere come “Un borghese piccolo piccolo”, uno tra i titoli più esplicitamente rappresentativi di questa fase, le consegne di testimone tra gli innocui mostri di allora ai mostri concreti, diventa il chiaro segnale di qualcosa d’inarrestabile: i piccolo-borghesi compiaciuti di sé stessi, abituati al gretto benessere delle mura domestiche, escono allo scoperto e reagiscono al cambiamento dei tempi nel modo ch’essi ritengono più appropriato al loro status.
L’interpretazione più matura e coraggiosa dell’Albertone nazionale è, dunque, il fattore concreto di uno sviluppo irreversibile. Di fatto, l’ultima prova di rilievo di un grandissimo interprete, in seguito condannato a prove che sono solo l’ombra vieppiù pallida, dunque il rimpianto, dei passati decenni.
A rifletterci, “Un borghese piccolo piccolo” sembrerebbe conservare spunti e temi analoghi a quelli di “Una vita difficile”. L’ipotesi, anzi, è che l’opera di Monicelli riprenda laddove termina quella di Risi, e che, preso a schiaffi l’industriale di cui è lacchè, il giornalista Silvio Magnozzi diventi a sedici anni di distanza Giovanni Vivaldi, modesto impiegato dell’ufficio pensioni del Ministero del Lavoro e, come lui stesso dice, ex-partigiano. Che rinunciando definitivamente alla prospettiva di un’esistenza tanto allettante quanto fatua, tale personaggio si riduca a consumare l’esistenza tripartendola tra famiglia, “week-end fatti di fragili evasioni e giorni tra pratiche senza storia”. Del resto, il denominatore comune – o meglio, la fonte – dei due personaggi è la medesima che alimenta la variopinta galleria di figure e bozzetti dell’attore romano. Ma laddove Magnozzi è un personaggio coerente fino in fondo con sé stesso, che in un periodo di apparente benestare non riesce a oltrepassare gli ostacoli delle proprie convinzioni, e dunque a cambiare status diventando quello che un certo ceto gli chiede (anzi, impone) di essere, Giovanni è l’altra faccia della moneta: in un periodo di tensione sociale ormai pronta all’esplosione, i sintomi della mostruosità implodenti (forse) anche nella figura di Magnozzi trovano completamente la propria ragion d’essere nella figura del travet pronto a tutto, anche alla massoneria, pur di godere di quel briciolo di benessere da sempre negatogli. Quando neanche questo serve, la vendetta è l’unica risposta possibile e coerente con sé stessi, ma anche con una società ormai sempre più culla.

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