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Camorra

Regia di Pasquale Squitieri vedi scheda film

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La recensione su Camorra

di lamettrie
8 stelle

Un bel film sulla criminalità organizzata, forse il primo di azione in assoluto di qualità, su quell’argomento in Italia.

Il regista, che a 34 anni non era ancora affermato, si può giocare il titolo programmatico, audace e rischioso per i tempi, per come pretende di descrivere in modo esaustivo un atroce malcostume. Questo è il suo merito maggiore, che oggi percepiamo di meno, perché poi ne sono arrivati anche tanti, specie nella miniera d’oro degli anni 70, anche del medesimo Squitieri. Il quale firmerà con “I guappi” un capolavoro sulla camorra, ma poi anche “Il prefetto di ferro” su mafia e fascismo, e “Li chiamavano…briganti” restano a mio avviso grandi opere, in cui la mano sull’azione è di primo livello.

Stupenda la scena dei coltelli. Apprezzabilissime sono le restituzioni realistiche della sua Napoli: nel suo squallore, estetico, morale e sociale, che ovviamente assecondano l’intento critico del regista, che qui ha scritto anche soggetto e sceneggiatura (e che non pretendono di esaurire ogni discorso su Napoli tralasciandone gli aspetti splendidi, che pure ci sono, come noto).

Il film è ottimo anche per la denuncia, che dopo il ‘68 si iniziava a fare (su Napoli c‘erano stati gli esempi meravigliosi, ma ultraisolati, di “Processo alla città”, di Zampa del ’52, e di “Le mani sulla città”, del ’63 di Rosi, di cui già nel ’58 c’era il valido “La sfida”). Il controllo economico, capillare e totalizzante, della camorra viene denunciato: il sindacalista viene quasi scannato in modo orribile, poiché portava avanti rivendicazioni giuste. Viene denunciata pure la corruzione politica: il deputato va a chiedere aiuto al camorrista, per fermare la giusta opposizione a degli affari illegali, che stanno dando soldi a ricchi delinquenti tanto quanto a lui, politico di livello (almeno per la posizione che ricopre) e molto ben pagato; e tale politico non sembra affatto estraneo a tali ambienti, nella versione altolocata, anzi. Da tale confidenza magari si evince la provenienza dei voti che lo hanno eletto, visto che poi lui deve tutelare affari edilizi, che il camorrista Capace nel film insegna essere i più ambiti dalla camorra medesima. Ma viene pure ben denunciato il primitivismo dell’ “orgoglio ferito”, tema tipicamente aristocratico, che trasuda violenza e ingiustizia. Il senso dell’eccesso, nel non tollerare la minima critica al proprio supposto valore assoluto, è splendido, come si vede soprattutto nel primo duello, anche perché non scade mai nel patetico da popolino, come facilmente poteva accadere, e in altri casi è accaduto (Merola, D’Angelo…).

Il finale è ben orchestrato, tragico il giusto. Ma anche qui Squitieri ha il merito di rivolgerlo al meglio, cioè in chiave educativa senza essere retorico. Il padre del protagonista è sempre un’ottima figura, moralmente, per la sua opposizione all’illegalità, anche se ciò gli è costato vantaggi economici e sociali, in quella società malata (che purtroppo in gran parte permane ancora oggi, a Napoli come tutto il Sud Italia). Questo padre fa ragionare il figlio, che non deve apparire un “eroe” agli occhi dell’altro figlio, piccolissimo, lì presente; ma bensì deve apparire per quello che è, uno “sfortunato”. Ovvero una vittima di un sistema sociale iniquo, che non offre alternative alla delinquenza, per chi ha la dignità di non farsi mettere i piedi in testa. L’esempio, il ragionamento, prevalgono in modo egregio: il protagonista (un bravo Fabio Testi) rinuncia a una sparatoria, che alla fine sarebbe stata comunque suicida, contro i plotoni di polizia; mette da parte l’arroganza malata, quella che non fa vedere alternative migliori, e si consegna alle forze dell’ordine. Accetta così di avere un futuro davanti, in cui riflettere sui propri errori e quelli degli altri (che poi erano quelli della classe dirigente, cui lui ambiva appartenere), per cambiare vita, con il doloroso, ma necessario, salutare ridimensionamento che ciò imponeva. Del resto, quella resipiscenza si avvertiva anche in brani precedenti: la lotta per gli indifesi e gli oppressi che in certi momenti lo ha animato (tipico specialmente dell’elemento brigantesco della mafia), il frenare certi eccessi di violenza tanto disumana (la citata tortura del sindacalista)…

Viene poi riprodotto, forse per le primissime volte sul grande schermo, il linguaggio assurdo dei malavitosi, che è poi purtroppo quello di quasi tutti a Napoli, privo di senso della contraddizione, e di rispetto della logica. I ladri sono persone oneste; i criminali sono galantuomini, e solo perché son ricchi; la ferrea correità nel rinunciare ad ogni aiuto alla forza pubblica, anche nei casi più assurdi, correità che manifesta un fiera opposizione allo Stato e alla legalità, che si legge come passata dalla tradizione in quanto modello educativo.

Fotografia, montaggio, musiche, cast assecondano in modo spedito la vocazione all’azione di un film che dura quasi due ore, ma non annoia mai.

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