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Fahrenheit 451

Regia di François Truffaut vedi scheda film

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La recensione su Fahrenheit 451

di LorCio
7 stelle

Romanzo straordinario e potente, Fahrenheit 451 approda al cinema grazie ad uno dei registi più bibliofili di sempre. Ed è proprio l’innata passione di François Truffaut nei confronti del libri (anche – e soprattutto? – come mezzo, come carta) che trasuda maggiormente da questa trasposizione libera ma non infedele. È un film agghiacciante, probabilmente una delle opere più (inconsapevolmente?) paurose e devastanti mai apparse sullo schermo. Il carattere in questione è di ben facile ispirazione: Truffaut ritiene di non poter vivere in una società privata del piacere della lettura, e come lui tutti coloro che cercano di evadere da una realtà non felicissima per trovare il conforto e la serenità (e gli spunti di riflessione) altrove.

 

 

È, per questo, un film disperato che parla di un futuro futuribile, immaginato senza evidenti segni avanguardistici – se si escludono il treno supersonico, i robot volanti e l’apparecchio televisivo interattivo – e ciò è dovuto alla convinzione (proveniente dai libri) che, nonostante il trascorrere degli anni, le emozioni e le sensazioni dell’essere umano restano tali. Certo, è arduo definire esseri umani questi pompieri impegnati nella folle e crudele impresa di distruggere la letteratura. Vestiti di nero, contraddistinti da un cinismo ai limiti della decenza umana, i pompieri sono la trasfigurazione al di là delle epoche dell’insania che colpisce e domina l’uomo. Il capitano di Cyrill Cusack è una delle figure più sprezzanti, bacate e crudeli del cinema.

 

 

Sono gestapo alla ricerca dell’acquisizione totale (e quindi della privazione della massa) di qualsivoglia espressione intellettuale e psicologica: hanno ben chiaro il principio che si può governare solo un popolo ignorante e governato dalla paura (conseguenza dell’ignoranza). Si salvano in pochi, ma le vie di salvezza appaiono a loro volta delle scappatoie che attestano una sconfitta: o ci si brucia assieme ai propri libri (la propria ragione di vita) per voler sottolineare l’imprescindibile rapporto tra parola e verbo, pagina ed esistenza; o ci si condanna alla stravagante esigenza di imparare a memoria il proprio libro del cuore, al fine di preservarlo dall’incendio e di donarlo alla memoria futura.

 

 

Per determinati versi, è anche quest’ultima una constatazione di una sorta di follia: amare un libro incondizionatamente può portare alla convivenza coatta (e invadente?) col testo stesso. Gli uomini-libri sono i partigiani dell’umanità trasferita su pagina, la resistenza passivamente attiva alla ferocia cerebrale. È un aspetto che, ci scommetto, ha probabilmente affascinato non poco quel Truffaut che si considerava “cittadino del cinema”: non esiste una patria specifica, bensì un movimento trasversale, un non-luogo dove si trova sé stessi. È il più grande insegnamento di Fahrenheit 451 (la temperatura a cui bruciano i libri) è proprio l’amore smisurato per la parola: è un sentimento tenero, commosso, partecipe.

 

 

Non importa se il film non è perfetto. Fin troppo meccanico nella sua scansione narrativa, impostato in una messinscena apparentemente non appassionatissima: eppure è uno dei film più popolari di Truffaut, uno dei suoi più inossidabili evergreen, che resiste al tempo evidenziando la sua congenita modernità e l’attualità del messaggio che porta intrinsecamente. C’è una motivazione ben precisa che dona una ragione d’esistere inevitabile e necessaria al film: la sincerità. Fahrenheit 451 è un film che fa amare i libri nella loro totalità.

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