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Cordura

Regia di Robert Rossen vedi scheda film

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La recensione su Cordura

di spopola
5 stelle

Nel film vengono sviluppate anche se in forma molto più discontinua, tematiche care al regista, alcune delle quali rintracciabili in una grossa fetta della sua opera come la critica al sistema a cui si aggiunge quella al militarismo (sviluppata attraverso un complesso discorso su codardia ed eroismo e sulla loro possibile alternanza).

Robert Rossen è stato indubbiamente un uomo di cinema a 360 gradi… difficile liquidarlo con supponenza anche di fronte ai risultati meno riusciti come potrebbe essere questo “Cordura”, che non è certo un capolavoro (anzi!!), ma è certamente portatore di un’ideologia eterodossa (una caratteristica spesso riscontrabile in tutto ciò che il regista ha prodotto nei vari campi, e che probabilmente è stata persino la causa principale che lo ha portato in rotta di collisione con la famigerata commissione per le attività antiamericane presieduta da Mac Carthy). Contiene in ogni caso, al di là del giudizio sul risultato complessivo, alcuni momenti “folgoranti” che potremmo definire di ottimo cinema (soprattutto nella prima parte, perché poi, andando avanti, lentamente in effetti scivola un poco nel tritello come non dovrebbe mai accadere). Prima che regista, Rossen è stato uno straordinario sceneggiatore, un bravissimo inventore di storie (le sue origini “letterarie” sono avvertibili più o meno in tutto il suo percorso). Per averne una riprova specifica, basterebbe “recuperare” uno straordinario noir (del 1947) per anni rimasto praticamente “invisibile”, e adesso, dopo un accurato restauro che gli restituisce lo splendore delle origini, nuovamente disponibile in Dvd (è per molti versi davvero una autentica riscoperta) grazie a Vieri Razzini e alla sua mai sufficientemente celebrata, encomiabile collana “Flamingo Video” della Teodora. Mi riferisco a “Furia nel deserto” di Lewis Allen .Questo film è significativo per più di un motivo, come l’insolito – per l’epoca - utilizzo del colore per un noir, e - non meno importante e secondario - proprio quello che riguarda la tematica trattata. E’ infatti probabilmente a pieno titolo, la prima effettiva pellicola nella quale, sia pure con toni non esplicitati fino in fondo, ma “scopertamente” evidenti e comprensibili, si parla – e non come sottotrama episodica, ma proprio come struttura portante della storia - di un rapporto di natura “omosessuale” fra due uomini che è fondamentale per lo sviluppo dell’intreccio (nemmeno Vito Russo nello stendere il suo saggio “Lo schermo velato” aveva colto questa specifica “evidenza” anticipatrice che indubbiamente rompeva molti schemi consolidati). Ma tornando a “Cordura”, sarebbe prima di tutto sbagliato catalogarlo semplicisticamente nella categoria dei western (un contenitore un po’ troppo riduttivo e fuorviante). Certamente il “terreno” dell’azione è quello, solo spostato verso i primi anni del ‘900 (l’azione è collocata introno al 1916 durante la breve campagna offensiva della cavalleria Usa contro Pancho Villa). Partendo da un romanzo di Glendon Swarthout, vengono qui sviluppate tematiche molto care al regista, alcune delle quali rintracciabili in una grossa fetta della sua opera (ovviamente con più o meno evidenza a seconda dei casi e delle condizioni), a partire da quel “Tutti gli uomini del re” che gli diede fama, notorietà e giusti riconoscimenti. Prima di tutto quindi il regista intende rappresentare una smitizzazione del militarismo e articolare in parallelo un complesso discorso su codardia ed eroismo (e sulla loro possibile alternanza per il solito rapporto fra “causa” ed “effetto”. Il film che è del 1959, si pone inoltre a margine di un periodo cruciale per la politica “invasiva” dell’America (leggasi Vietnam con tutto quello che né conseguito). Qualcuno ci ha voluto persino leggere una ipotesi – a mio avviso leggermente azzardata - di una sorta di prova generale “su scala ridotta” di ciò che avrebbe atteso proprio l’esercito Americano in quel conflitto al di là dell’oceano. La posizione però più che “critica”, è fortemente problematica, va un po’ sulla scia di altre anche più potenti, celebrate e profonde pellicole prodotte in quegli anni (non ne eguaglia però il potere corrosivo e di denuncia) sui limiti, le responsabilità e i difetti della casta militare. Rossen lo fa proprio alla sua maniera, distinguendosi semmai per una intuizione psicologica abbastanza interessante che riesce ad andare oltre il semplice pamphlet come in una sorta di “umanizzazione” anche in senso negativo delle figure che animano iln percorso narrativo. Il film racconta la storia di un maggiore che ha avuto un imprevisto e imprevedibile “cedimento codardo” proprio durante quella incursione “guerreggiante” contro Villa, al quale viene affidata una missione “ricostruttiva” che gli consenta di riconquistare il suo (in un certo senso) “onore” perduto, in virtù non solo dei suoi trascorsi precedenti che meritano comunque un “certo rispetto”, ma anche dei suoi natali (figlio di un militare di ottima e specchiata reputazione). Sarà singolarmente proprio lui, il “codardo” a dimostrarsi nella nuova impresa, uomo di preclari virtù anche guerriere, mentre toccherà ai cosiddetti “eroi” (proprio quelli scelti per una ricompensa al valore), a rivelarsi infidi e anche codardi, con passati e inclinazioni persino “criminose”. Ci sono poi le consuete “divagazioni” sentimentali ad opera di una avventuriera non più giovanissima, ma sempre affascinante (accusata di tradimento, perchè pur essendo americana, è stata trovata assieme ai ribelli messicani), che porterà nel gruppo una forte dose di rivalità e di scompiglio, e sarà una delle ulteriori “cartine di tornasole” capaci di mettere in evidenza nel percorso obbligato del “drappello” le ambizioni, le paure, il risentimento e l’odio sottaciuto, oltre che la libidine repressa, con esplosioni anche violente e imprevedibili. Già da questi brevi accenni, si può quindi evincere che il film pone con nitidezza proprio il problema del valore militare e l’alternanza dei propri destini (nessuno è eroe sempre e comunque, né tantomeno vigliacco per predestinazione: sono le situazioni e gli eventi a definire spesso le linee comportamentali). Il difetto maggiore del risultato è proprio negli sviluppi narrativi della seconda parte della storia (a partire dalle variazioni tipicamente hollywoodiane che lasciano in vita, contrariamente a ciò che prevedeva il romanzo il protagonista ritornato ad essere “senza macchia e senza paura”) forse un po’ troppo ingarbugliati e artificiosi (il consueto “uomo solo” costretto a combattere contro tutto il folto gruppo di canaglie che lo circonda, con forti punte di assoluta inverosimiglianza). Comunque, rispettoso delle linee tracciate da Swarthout, così come nel libro, anche nel film - nonostante igravi reati commessi anche di carattere insubordinativo, alla fine il manipolo di disperati riuscirà a portare a termine vittoriosamente l’impresa.. Certamente nello svolgimento dei fatti si avverte il rovello personale di Rossen, in virtù di ciò che era stato costretto a fare e subire per “pararsi il deretano” da Mac Carthy fra amarezza e malcelato tentativo di far comprendere come non sempre è possibile essere “eroi” ad ogni costo (si avverte come per lui al pari di altri – vedi Kazan – nel percorso successivo alla disavventura della “delazione”, come un ripiegamento sconfortato, un tentativo di cercare di “spiegare” le ragioni del cedimento). Accolto malissimo dalla critica, il film non ottenne a suo tempo nemmeno un adeguato riconoscimento da parte del pubblico, forse proprio per il suo non voler essere davvero “né carne, né pesce”. Possiamo quindi parlare di un flop persinoe economico che fece perdere alla Columbia una ingentissima cifra (circa 5 milioni di dollari, si dice). Resta al suo attivo, oltre a ciò che ho cercato di evidenziare sopra, una indubbia delicatezza di tocco, una discreta definizione delle psicologie, tantissime buone intenzioni non tutte centrate, forse anche per una eccessiva verbosità “oratoria” fortemente avvertibile in motlisismi tratti, e un ingente cast di attori molti dei quali sulla via del tramonto, da Gary Cooper a Van Heflin a una “decaduta” ma ancora godibilissima Rita Hayworth, oltre che Tab Hunter e Richard Conte.

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