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Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa
di chinaski
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Teatro performativo, di trasformazione, in cui il corpoattore è l’elemento scenico predominante, allenato e tenuto sotto un rigido controllo, in una reiterazione di gesti compulsivi e ossessivi, fossero quelli della preparazione di un ruolo o di un disturbo comportamentale. Un volto che sbuca dal buio e poi le gambe, i piedi e le mani, porzioni fisiche in perimetri di luce, spazi limitati in cui le membra si muovono, gesticolano, articolano coreografie intimiste e metaforiche, per poi ripetere tutto da capo, quando la voce del maestro (quella dello stesso Barba), sembra non essere soddisfatta dai risultati ottenuti da Gregorio (Lorenzo Gleijeses), personaggio che porta lo stesso nome e lo stesso destino del suo omonimo kafkiano. Assistiamo a una costante metamorfosi attoriale, in cui le movenze quotidiane e quelle della danza millimetrica di un millepiedi mutante si alternano e sovrappongono fino a un turbinio di piroette e genuflessioni, in una estatica e masochistica ed estenuante prova fisica, con corse corrosive verso una luce irraggiungibile e parentesi di stasi funebri, di suicidi disegnati sul suolo e poi sovversivi balzi scimmieschi davanti a residui catodici, da frustare e abbracciare, in un impossibile dialogo con una tecnologia che gironzola sul palco e allo stesso tempo ne crea atmosfere e virtuali interazioni, con suoni e luci che compongono un altro livello di visione e percezione.

Gregorio si avvicina agli oggetti, fiutandoli, strisciando sul pavimento, ne sperimenta l’uso in una planimetria di direzioni inventate dai suoi bisogni parassitari,  da insetto sedotto dai sensi, impossibilitato a fermarsi nei suoi spasmodici sobbalzi. Cerca nella comunicazione digitale un dialogo con il proprio padre (altro doppio kafkiano), la propria compagna, la madre, finendo per sbraitare e sbavare in accessi di ira funesta per poi calmarsi nella pratica meditativa di una impossibile catarsi respiratoria. I battiti cardiaci tornano dunque ad accelerare, in un’orgia di ombre e proiezioni luminose e magistrali alterazioni visive, stanze mentali dalle quali sembra impossibile fuggire anche continuando ad affrettarcisi dentro, a ricercarne i confini, i pensieri perdono le loro originarie proporzioni e le pareti oscillano come pericolosi pendoli di un pandemonio psichico irrimediabilmente portato all’eccesso e al collasso sinestetico. 

Il lavoro dell’attore su sé stesso, perché sia lui il centro della scena, in una ritualistica celebrazione della sacralità di quel luogo misterioso, di cui lo spettatore è la parte nascosta e silenziosamente partecipe, in una esperienza di comunione che lo sguardo assorbe e trascende e il regista, prima di lui, che ne simula potenza ed effetti, dosandone l’energia, affinché non si disperda nel superfluo, quello in cui viviamo, credendo ancora nella sua illusoria sostanza, spacciata per viziosa essenza, nient’altro che una vana ed evanescente presenza. 

 

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