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Può sembrare difficile, pretestuoso e persino acrobatico parlare di qualcosa che non si è visto. Eccomi: sto per farlo.
Ieri sera (mercoledì, per me che scrivo) è andata in onda sul canale Nove la seconda puntata di Leaving Neverland; non l’ho vista, non ho visto la prima. Pazienza: nell’era dell’OTT (over-the-top) è facile rimediare: sul sito del canale Nove le due puntate da due ora ciascuna sono disponibili in streaming e potrete rimediare anche voi con me (gratuitamente, legalmente).
Intanto, un po’ ovunque sui media italiani, se ne parla estesamente. Nel mondo - e soprattutto negli USA - lo si fa già da un po’. 
Leaving Neverland è il documentario realizzato da Dan Reed in cui si racconta - solo attraverso interviste e senza voce fuori campo - della lunga relazione intercorsa tra Micheal Jackson e due ragazzini (oggi adulti): relazione iniziata quando loro avevano sette e dieci anni, affettiva e sessuale. Per la cronaca, sapete che vi furono dei processi (per casi diversi da quelli affrontati nel documentario): in uno Jackson pagò e se la cavò, nell’altro fu assolto. Il suo mito finora non ne era stato intaccato più di tanto. Sempre per la cronaca, nel documentario non si dà voce ad alcun contraddittorio, per esempio da parte della famiglia o di altri che frequentarono Jackson quando erano bambini e che negano vi sia mai stato nulla d’illecito. In ultimo, va anche detto che quasi tutti i commentatori affermano che ciò che dimostra il documentario sembra molto, molto persuasivo: al di là di qualsiasi altra considerazione, gli abusi sessuali, la manipolazione, la frequentazione ossessiva del cantante con ragazzini sembrano conclamati. Elementi che tra l'altro si inseriscono perfettamente nel quadro che era già di dominio pubblico e che il mondo sembrava aver digerito: quello di uomo profondamente disturbato, che si era sottoposto a operazioni per cambiarsi il colore della pelle e i connotati e che sentiva il bisogno di dormire con bambini non suoi attirandoli in una villa - Neverland - che più che un mondo fantastico sembrava una gigantesca trappola. Ciò nonostante la macchina del mito, anche dopo la sua morte, sembrava non essersi curata di tutto ciò.
Le polemiche sono comunque state altissime: i fan di Jackson faticano ad assistere a quella che appare come una demolizione del loro idolo. D’altro canto altri hanno reagito oscurandone l’opera e il lascito artistico: alcune stazioni radio hanno messo al bando la sua musica, altri - come la Louis Vuitton - hanno ritirato dal mercato merci legate all’immagine del cantante, come a dissociarsi per sempre da ogni relazione (sin qui fruttuosa). E ancora non si è capito (!!) se l’altro giorno la figlia di Jackson, Paris, abbia tentato il suicidio o no. 

 

Michael Jackson

Leaving Neverland (2019): Michael Jackson


Non avendo visto il film (ma lo vedrò, senz’altro) non mi pronuncio ovviamente sui contenuti fin qui riportati. Acrobaticamente, la prima cosa che mi è venuta in mente sono state le vignette che Forattini pubblicava su Repubblica prima dello scandalo di Tangentopoli: vignette in cui i socialisti e i democristiani erano (già) spesso disegnati come ladri. (A proposito avete visto le foto di Favino truccato da Craxi nel prossimo film di Amelio?).
Poi, un po’ meno acrobaticamente, ho pensato allo scandalo #Metoo e alla emersione dell’esercizio del potere (maschile, sessuale) nel mondo del cinema e non solo. E infine non è stato affatto acrobatico pensare a quello che sta accadendo nella Chiesa cattolica, con la denuncia e la condanna dei pedofili che vi hanno trovato dimora e protezione. La cosa che accomuna questi fatti non è tanto la natura dei reati (la corruzione nella politica italiana ad esempio non ci castra molto con gli abusi dei preti) ma il fatto che essi erano in qualche modo da sempre sotto gli occhi di tutti: fatti visibili, presenti spesso nell’esperienza di molti e nel si dice dei più. A volte appariscenti, altre volte facilmente intuibili e profetizzabili. 
Eppure si è stesa su di essi una sorta di omertà sociale: non nelle coscienze dei singoli, ma in quella collettiva. Un’omertà magari rotta dalla satira, dal parlare comune, ma non infranta e portata ad evidenza nel piano pubblico se non “dopo”: quando il mito decade o quando la pressione sotto il coperchio è troppo alta. Quando il sistema si rompe. È il potere, bellezza: anche il potere mediatico emanato da una star. Un potere che acceca e ammutolisce, che quasi impone il rifiuto: non si vede perché non si sa (o non si vuole), collettivamente, vedere. 
Il cinema ha spesso una funzione catartica. Ma è raro che sia il primo a svelare: più facilmente ricapitola, con la forza aggiuntiva della rappresentazione.
Presto, magari stasera stessa, guarderò il documentario su Michael Jackson, che mi dicono essere molto disturbante. Ma so che la domanda che mi frullerà nella testa sarà soprattutto una. Quale documentario vedremo tra dieci anni? Cosa abbiamo sotto gli occhi e non stiamo guardando? Qual’è la mia stessa omertà?

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