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Art the Clown. L'icona horror del XXI secolo.
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Già con All Hallows’ Eve (2013), il cui titolo gioca su una delle probabili origini del nome della festa di Halloween, ovvero “Notte di tutti gli spiriti sacri” in inglese antico – mentre per altri l’origine è ricollegata al mito di Jack O’ Lantern che è condannato dal diavolo a vagare per il mondo solo di notte e alla sola luce di una candela interna alla famosa zucca “scavata”, e scavare è “to hollow”, quindi l’atto è “hollowing” da cui probabilmente Halloween – Damien Leone aveva dato prova di un gusto chiaro e preciso per il genere horror. Nella pellicola del 2013, due ragazzini, fratello e sorella, passano la notte di Halloween con la classica giovane babysitter e troveranno nella borsa dei dolcetti raccattati di casa in casa una vecchia videocassetta senza etichette. La curiosità uccise il gatto, si sa, e così la babysitter accetta le suppliche dei ragazzini per curiosare il contenuto della videocassetta. Una serie di piccole storie del terrore dove appaiono varie mostruosità, tra cui un sadico pagliaccio assassino che irromperà in seguito anche nella casa degli sfortunati ragazzini.

Il pagliaccio si chiama Art the Clown. È alto, magro, allampanato, dal viso spigoloso e il naso aquilino. La sua figura ricorda quella di Conrad Veidt e delle sue due maschere più celebri: il Cesare de Il gabinetto del Dottor Caligari (Robert Wiene, 1920) e il Gwynplaine de L’uomo che ride (Paul Leni, 1928). Veste un  abito da pagliaccio metà bianco e metà nero. Il trucco facciale riprende i due colori base: fondo bianco e contorni e finimenti neri pece. Porta un cappellino a cilindro minuscolo con elastico. I denti sono neri e aguzzi. Fin da All Hallows’ Eve Art the Clown ci viene presentato come sadico, grottesco e inquietantemente ironico. Lo stesso regista non ha assolutamente pietà per nessuno e nessun limite alla brutalità della violenza inflitta. L’estetica sporca e cruda di Damien Leone è fin dal suo esordio un antidoto all’horror mainstream statunitense che da un lato edulcora le vicende con ambientazioni e personaggi borghesi dalle traiettorie narrative collaudate e prevedibili, e dall’altro pulisce l’immagine cancellando ogni dispositivo del terrore dallo sguardo spettatoriale.

Tutto si ripete e si intensifica in Terrifier, ovvero “terrorizzare” in francese. Dopo un incipit che ancora non sappiamo se è una prolessi o un’analessi, due ragazze escono da una festa di Halloween. Una è bionda, l’altra mora. La bionda è ubriaca marcia, la mora può guidare. Si incrociano con Art the Clown e il suo grosso sacco nero. Mentre la bionda lo scherza, la mora è inquietata da quella strana figura. In seguito decidono di mangiare un trancio di pizza. Entrano in una tavola calda e poco dopo il pagliaccio entra e si siede poco distante da loro. Le fissa con uno sguardo inspiegabile, un misto di terrore e sfottò, e poi iniziare a scherzare come ogni clown ama fare. Infastidite, le ragazze se ne vanno alla macchina. Una ruota è bucata. Chiamano la sorella della ragazza mora perché le venga a prendere. Nel frattempo dovranno aspettare in macchina, ma il bisogno urgente della mora di andare al bagno la obbliga ad entrare in un edificio abbandonato dove un uomo sta derattizzando ogni locale. Art the Clown le raggiunge, e ha inizio l’incubo.

L’immagine è sporca, la fotografia è oscura. La regia predilige il montaggio e i primi piani. Non ci sono i movimenti di macchina fluidi dell’horror mainstream, non c’è nemmeno pudore nella messa in scena. È uno dei pochi film horror del nuovo secolo dove si vede un bel paio di tette. Anche Art the Clown appare in nudo frontale in una sequenza disturbante. Dopotutto il pagliaccio assassino uscito dalla mente di Damien Leone non è solo “maschera”, ma anche “corpo”. Non solo il veicolo perturbatore è il suo volto, con il suo trucco e le sue smorfie tra il perturbante e il buffonesco, ma anche la sua corporalità clownesca veicola disagio e oscenità. Art the Clown non ha voce. Ferito gravemente non urla, spalanca solo la bocca al cielo, ma non emette suoni. Comunica tutto con un’efficace mimica facciale e corporale. Di cui ringraziamo l’attore che lo interpreta, David Howard Thornton. La sua fisicità non è solo il grande spettacolo dell’intero film, ma è anche la chiave di lettura per interpretare lo sguardo horror del regista: granguingnolesco, sporco, impietoso, osceno, scabroso. Altro che Rob Zombie.

Tra i Settanta e gli Ottanta, Leatherface, Michael Myers e Jason Voorhees erano maschere indecifrabili, dei segni orrorifici non decodificabili, erano il male ancestrale e incomprensibile, veicolavano il perturbante attraverso l’assenza di espressività e di segni di umanità. Mentre Freddy Krueger fondava il suo aspetto perturbatore sulla propria fisicità, di cui Art the Clown è in parte erede, utilizzando volto e corpo per tramettere l’orrore della propria maschera, con annessi e connessi – viso bruciato, abiti quasi clowneschi, un corpo proteiforme, etc. Allo stesso modo, i cosiddetti mostri del XX secolo, ovvero i serial killer, essendo esseri umani senza nessuna caratteristica metafisica o accenni a qualche spiegazione soprannaturale, utilizzavano e utilizzano ancora oggi sia il volto che il corpo per infierire paura, dolore e morte. Con gli anni Novanta arriva Ghostface che abbina alla fissità inespressiva e inumana della maschera una fisicità umana, anche goffa, diventando facilmente l’icona horror dell’ultimo decennio del Novecento, il decennio del sovvertimento delle regole, del postmodernismo, il decennio di Tarantino, e di Álex de la Iglesia. Poi sono arrivati i bambini fantasmi intrappolati in case dal passato doloroso o in videocassette demoniache, gli esorcismi e qualche strega, ma solo il Creeper del trittico Jeepers Creepers (Victor Salva, 2001, 2003, 2017) riporta attenzione alla mostruosità della maschera e segna un nuovo scarto. Il Creeper infatti abbina una “maschera” espressiva a una fisicità muscolare senza precedenti – anche se la forza bruta di Jason Voorhees è facilmente accostabile. Caso a parte è Jigsaw, il protagonista della fortunata saga di Saw (James Wan, 2004; Darren Lynn Bousman, 2005, 2006, 2007; David Hackl, 2008; Kevin Greutert, 2009, 2010; Spierig Bros., 2017). È umano e non c’è intrusione del soprannaturale, nemmeno nelle incursioni argentiane del pupazzo in triciclo Billy. La maschera comunque c’è, quella azzeccatissima ed inquietante da maiale con lunghi capelli neri, ma è appunto solo una maschera che deconnota Jigsaw per il tempo del suo utilizzo, ma dietro la maschera c’è sempre un uomo, con una sua etica e una sua filosofia, unitamente a un volto vero e proprio, quello monolitico di Tobin Bell, e a un corpo che, intelligentemente, oltre a scontrarsi di tanto in tanto con le sue vite, si corrompe nel tempo a causa di una malattia terminale.

Art the Clown, al netto delle tante nuove mostruosità partorite da molti e anche ottimi film horror del nuovo secolo – come il sadico cacciatore di turisti Mick Taylor di Wolf Creek (Greg McLean, 2005, 2013) – e al netto della filmografia dedicata ai killer clowns, oggi in netto rialzo, è senza ombra di dubbio la migliore maschera del terrore del nuovo secolo. Non bastano “presenze” spettrali o proiezioni angosciose di irrisolti personali – vedi It Follows (David Robert Mitchell, 2014), Babadook (Jennifer Kent, 2014) o The Witch (David Eggers, 2015) et similia – per creare una nuova icona horror, un nuovo cinema del terrore e un nuovo linguaggio per rappresentare paure, angosce e turbe varie. Basta invece una mostruosità radicata nell’immaginario horror come appunto un killer clown e quindi una “maschera”, però dotata anche di una peculiare originalità che dà nuova linfa non solo all’iconografia del genere, ma anche all’aspetto più politico e provocatore del genere stesso.

Mauro Fradegradi - Abbiategrasso, 15 settembre 2018.

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