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OLTRECONFINE SPECIALE CANNES: GIORNO 7 – LA CRISI ECONOMICA ED IL PROBLEMA DEL POSTO DI LAVORO PER UN CINQUANTENNE; UNA FAMIGLIA CHE SI SGRETOLA DOPO LA MORTE DI UNA MADRE TROPPO TALENTUOSA E TROPPO FAMOSA; LA PACE INTERIORE IRRAGGIUNGIBILE PER BARTAS
di alan smithee ultimo aggiornamento
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A Cannes quest'anno sono tornati, dopo l'austerity di almeno un paio d'anni, molti manifesti e murales a tappezzare la Croisette, pubblicizzando film di ogni tipo e genere, e informandoci su post-produzioni di cui probabilmente non eravamo nemmeno al corrente.

E tra la solita faccia da schiaffi di un sin troppo scanzonato Jean Dujardin nella nuova fatica dell'immarcescibile ed instancabile Claude Lelouch, che non riesce proprio a rinunciare ai suoi titoli logorroici e banali (spesso ben più banali dei film in sé) nemmeno stavolta (Un + Une), tra la trilogia della crisi portoghese di Miguel Gomes di Arabian Nights, tra qualche americanata truzza o commerciale con Kevin Costner, uno spin off su Leatherface, è il nuovo film di Paul Verhoeven con l'inquietante volto di Isabelle Huppert (Elle) quello che ci incuriosisce di più e ci rende frementi di attesa.

 

Tornando ai pronostici, a dare i voti, o meglio i numeri, o semplicemente a considerare i giudizi sintetici della stampa, riassunti ogni giorno ed aggiornati dalla pagella ufficiale del quotidiano cinematografico ufficiale del festival. le Le Film Francais, scorgiamo (cfr. foto sotto, della quale mi scuso per la scarsa qualità, per la pagina spiegazzata, per le dita che la sorreggono, ma è stata fatta di fortuna in coda, dalla rivista di una signora inizialmente un po' diffidente alla richiesta di farmela fotografare in quanto sprovvisto di una mia copia) sempre in testa il nostro Moretti, tallonato da La loi du marché, visto oggi e forte di una straordinaria interpretazione di Vincent Lindon, e poi Carol. Ma pare che da Mountains May Depart di Jia Zhangke ci si debba, come insegnano i suoi film precedenti, aspettare molto.

Staremo a vedere.

Il daily Le Film Francais e le sue "pagelle" sulle valutazioni della stampa a proposito dei film in Concorso e de Un Certain Regard.

 

Oggi, per il Concorso, ho potuto vedere l'apprezzato film francese di Stephane Brize, LA LOI DU MARCHE' (titolo internazionale The measure of a man), al suo terzo lungometraggio e sempre con Vincent Lindon come protagonista. La vicenda drammatica di un uomo che, passata la cinquantina, si ritrova senza lavoro per oltre diciotto mesi senza riuscire a trovarne uno nuovo, ma trascorrendo i mesi a formarsi e a fare corsi inutili e non compatibili con la propria maturata professionalità; un uomo con un figli handicappato da mantenere, oltre che una moglie occupata ad occuparsene.

Dopo molte porte sbattute in faccia, l'uomo riesce a trovare una occupazione presso un grande centro commerciale: dovrà controllare, attraverso telecamere, il regolare svolgimento delle operazioni di compravendita, eventuali tentativi di furto, ma pure osservare il comportamento dei colleghi addetti alle casse.

In tal modo l'uomo, per salvaguardare quella sua ultima fondamentale possibilità di sopravvivenza, dovrà fare i conti col dilemma attanagliante se denunciare ogni scorrettezza di cui scorgerà l'esistenza, mettendo in discussione il lavoro di alcuni colleghi, oppure cercare di non divenire lo spione di turno. Una drammatica morte di una delle principali colleghe accusata di furto tramite la gestione di buoni spesa, suicida dopo il licenziamento, non farà che acuire il senso di colpa di una persona onesta afflitta dalla povertà e desiderosa solo di riuscire a (soprav)vivere garantendo la sussistenza ai propri cari. Il film assume un tono ed uno stile quasi documentaristico che serve a calarsi completamente nella realtà lavorativa di una quotidianità grigia di ogni giorno, e l'interpretazione di un superbo Vincent Lindon supplisce una certa consapevole povertà di messa in scena su un argomento spinoso certo, ma anche messo in scena in svariate occasioni, anche già rientrate nel Concorso, come per il film di Nicole Garcia o di Laurent Cantet diversi anni orsono.

Lindon con la sua prova si candida seriamente al premio per la migliore interpretazione maschile.

VOTO ***

 

L'interessante regista norvegese Joachim Trier, autore degli interessanti Reprise e di Oslo, 31. August, che ho avuto modo di vedere tempo addietro, girà per la prima volta in territorio e lingua statunitensi e ci racconta, pure lui nel Concorso della disgregazione di una famiglia in seguito alla morte (accidentale? premeditata?) della famosissima madre di famiglia, fotografa di guerra talentuosa e celebratissima, finita uccisa tra le lamiere dell'auto in seguito ad un tremendo frontale con un autocarro. Il film si intitola LOUDER THAN BOMBS.

Una retrospettiva organizzata a tre anni dal decesso, riunisce i tre maschi della famiglia (padre e due figli maschi), che non riescono più da ani ad avere un dialogo, specialmente tra il padre ed il figlio minore, insicuro e chiuso soprattutto col genitore, sotto il cui tetto continua a vivere ma col quale non ha intenzione di instaurare alcun rapporto di confidenza.

Trier mette sul fuoco tanta carne, troppa in effetti, e la materia, complessa e delicata, finisce per scappargli di mano svilendosi in continui sbandamenti di sotto-storie che non fanno che complicare e rendere sempre più indigesta una storia di un lutto inaccettabile che nasconde un segreto ancora più difficile da accettare senza perdere la calma.

Tra l'ottimo cast coinvolto, che vede nei panni della defunta celebre reporter fotografica l'attrice francese Isabelle Huppert, e Jesse Eisemberg nei panni del figlio maggiore della coppia, soltanto Gabriel Byrne, il padre che cerca di riaccordare i fili di un dialogo tra quel che resta della propria sfilacciata famiglia, sembra quello più coinvolto e partecipe; ma il film, prolisso e tortuoso, frammezzato da flashback e da sotto storie intese a presentarci più a fondo i vari protagonisti devastati dalle rispettive insicurezze e nevrosi, finisce per tediare ed emozionare davvero molto poco.

VOTO **

 

Dal teatro La Licorne di Cannes La Bocca, mi trasferisco in macchina verso il centro città, cercando di raggiungere il Palais Croisette e trovare parcheggio in tempo (circostanza per nulla scontata dato che ho solo un'ora di tempo) per mettermi in coda per l'ultima seance della Quinzaine che vede coinvolto un grandissimo regista che apprezzo molto. Si tratta del lituano Sharunas Bartas, un cineasta rarefatto e contemplativo che con Lontano da Dio e dagli uomini (unico suo film uscito in Italia pure al cinema) si creò un suo seguito una ventina di anni orsono.

Trattandosi dello spettacolo serale e di una anteprima, il regista viene invitato in sala, sopraggiungendo, elegante, flessuoso e distaccato, freddo come un killer e misuratissimo nelle parole e nella presentazione della sua ultima fatica, con le sue due attrici protagoniste: una interpreta il ruolo di una giovane violoncellista compagna del protagonista, mentre quella più giovane la figlia dello stesso, nata da una precedente relazione. Il ruolo del compagno e padre di entrambe lo interpreta lo stesso Bartas. Il regista non anticipa alcunché del suo film ma si limita ad augurare alla sala una buona visione: silenzioso ed essenziale in linea e perfettamente coerente con lo stile di cinema che da sempre lo caratterizza e che lo ha reso grande.

Il film si intitola PEACE TO US IN OUR DREAMS.

Storia di una crisi di coppia che si consuma sotto lo stress di un lavoro da musicista che la violinista non riesce più a governare, mentre la figlia è turbata dalla relazione del padre che ha fatto seguito alla morte di sua madre. Riunitisi per un fine settimana in una località di villeggiatura, nella bella villetta di famiglia, i tre assieme ad un grosso alano si ritrovano cercando di mettere da parte pensieri e frustrazioni, ma in realtà spingendosi verso una deriva in cui le parole, la ricerca di spiegazioni verbali, divengono un inutile perdita di tempo insufficiente a chiarire tutte le incognite di un malessere latente e devastante.

La ragazzina inoltre ha un amico d'infanzia coetaneo che vive nei pressi della loro dimora di vacanza: un biondino figlio di contadini che vive aiutando i genitori poveri e rubacchia qua e là dai vicini, negli orti e nelle stalle. Ma il giorno in cui il ragazzo sottrae un fucile alle sue vittime abituali, cacciatori stufi dei furti del giovane delinquente, si innesta un clima di violenza che scuote l'atona spettralità di un ambiente contadino e agreste inerte e silenzioso, ideale per celebrare un'agonia dei sentimenti che rende asettici i rapporti tra i tre ammutoliti protagonisti.

Sharunas Bartas e le sue due attrici protagoniste presenti al Palais Croisette alla presentazione del film Peace to us in our dreams.

 

Inquadrature di paesaggi bucolici e grandi scorci immobili di una natura che alterna l'ordine delle dimore borghesi alla semplicità disordinata e scomposta degli ambienti contadini, il film di Bartas affascina per il suo ostinato non dire e non voler raccontare, per il suo lasciarsi condurre verso un baratro di mutismo e mancanza di comunicatività che rende spettrali e raggelati i rapporti umani di tre individui persi nella desolazione delle rispettive nevrosi e propensi a crearsi muri invisibili, ma insormontabili, in grado di creare un isolamento asettico tra di loro che non permette a nessuno di essi di riuscire a trovare una parvenza di pace o di consolazione dai rispettivi dolorosi stati d'animo.

VOTO ****

 

 

 

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