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I giochi del diavolo - La Venere d'Ille

Regia di Mario Bava, Lamberto Bava vedi scheda film

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La recensione su I giochi del diavolo - La Venere d'Ille

di undying
6 stelle

Il cinema fantastico sul piccolo schermo, per la prima volta nobilitato dalla mano inimitabile del grande Mario Bava (supportato in regia dal figlio Lamberto) alle prese con il secondo episodio de "I giochi del diavolo".

 

La-Venere-d-Ille-Mario-e-Lamberto-Bava-1981

 

Ille-sur-Têt, Francia. Durante l'abbattimento di alcuni alberi, nella tenuta di Peyhorrade (Mario Maranzana) viene alla luce una statua in bronzo ritraente Venere, sepolta nel terreno e risalente al periodo ellenico. Di inestimabile valore, il nuovo "proprietario" pensa bene di sottoporla all'analisi dell'esperto Mathieu (Marc Porel), in arrivo per l'occasione da Parigi ed ospite di Peyhorrade per alcuni giorni. Nel frattempo la famiglia si prepara per celebrare le nozze tra il figlio di Peyhorrade - Alfonso (Fausto Di Bella) - e Clara (Daria Nicolodi), quest'ultima sorprendentemente simile alla statua di Venere. Alfonso si rivela essere un futuro marito ben poco fedele non mancando alcuna occasione per tradire Clara, sia con la serva di casa che con altre disponibili fanciulle. Il giorno delle nozze, contravvenendo il buon comportamento di circostanza, Alfonso decide di partecipare a una partita di pallacorda (una primordiale forma del tennis). Per meglio dedicarsi all'attività agonistica si libera dell'anello matrimoniale destinato a Clara, inserendolo al dito della statua. Da quel preciso momento qualcosa di incomprensibile sembra accadere, almeno agli occhi vigili di Mathieu: la Venere di bronzo appare animarsi di vita propria, forse addirittura gelosa del comportamento di Alfonso.

 

"Guardate bene i suoi lineamenti: quel sorriso agli angoli della bocca, gli occhi fissi nel vuoto, le narici frementi, tutto è volutamente contratto. Si direbbe che l'artista abbia voluto rappresentare... la malvagità. C'è qualcosa di feroce, in questa Venere. Semmai è esistita una donna come questa, compiango i suoi amanti: li doveva far morire di crepacuore."

(Mathieu)

 

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La Venere d'Ille: Marc Porel 

 

La seconda proposta de "I giochi del diavolo" prende spunto da un omonimo racconto di Prosper Mérimée, pubblicato per la prima volta nel 1837. Scritto da Cesare Garboli, in compartecipazione con Lamberto Bava (coinvolto anche alla direzione per via delle cattive condizioni di salute del padre), rientra tra i tre titoli della serie girati "cinematograficamente". Nonostante la pregevole regia e un cast di maggior rilievo rispetto alla media, la scelta letteraria questa volta si rivela meno riuscita essendo il racconto originale poco ritmato, più drammatico che gotico; di conseguenza la sua trasposizione sottoforma di sceneggiatura ne risente per lento andamento narrativo e inferiore contenuto visionario. Come horror, La Venere d'Ille non raggiunge nemmeno lontanamente il livello delle più riuscite pellicole dirette dal regista e anche la mediocre interpretazione degli attori (a partire da Porel, sino alla poco convincente Daria Nicolodi), unita a un preambolo inconcludente che supera abbondantemente i tre quarti d'ora, contribuisce a rendere piuttosto monotona la visione. La mano del grande Mario Bava (1914 - 1980) si manifesta comunque nel pregevole quarto d'ora finale - che val bene l'attesa - reso di pregevole qualità grazie a un uso ineguagliabile della tavolozza cromatica, più pittorica che cinematografica, in grado di riportare sullo schermo le migliori atmosfere "fantastiche" tipicamente ascrivibili all'autore. È in questo riuscito e felice momento, contraddistinto da precisi, calcolati e armoniosi movimenti di macchina (durante l'impressionante soggettiva della statua) e da una significativa colonna sonora (opera di Ubaldo Continiello), che si riesce ad apprezzare appieno la qualità dell'operazione, comunque in grado di nobilitare lo standard della produzione seriale destinata al piccolo schermo.

 

Lamberto-Bava

Lamberto Bava 

 

La parola a Lamberto Bava [1]

 

"Originariamente La Venere d'Ille doveva fare parte di una serie molto più articolata, che si chiamava Il fantastico raccontato da Italo Calvino. Invece in esterni fu girato solo La Venere d'Ille, e due storie di altri registi, però con telecamera in studio, quindi con meno lavoro e meno costi. Scegliemmo un racconto di Prosper Mérimée, che sceneggiammo io e Cesare Garboli, e il risultato fu davvero buono. La feci leggere a mio padre e alla Rai, che approvò quasi immediatamente. Era la prima volta che una mia sceneggiatura subì delle correzioni quasi minime. In effetti, fu un lavoro abbastanza facile perché c'era l'indicazione di non alterare troppo il testo letterario. Era la storia di una statua che, apparentemente, uccideva: una storia abbastanza insolita per la Rai di quel periodo, era il 1979. (La regia era davvero a metà tra me e mio padre), le riprese notturne le faceva girare sempre a me, era un classico. Eravamo un po' come i fratelli Taviani, un giorno gira uno, un giorno l'altro. Ma alla fine in quel film ci sono molte cose mie, per esempio le scene delle cucine, le uccisioni dei polli e dei maiali, i momenti di maggiore paura. Ma ci sono anche le cose classiche di mio padre: la statua, l'atmosfera e l'ambiente che la circonda, i disegni.... A un certo punto della giornata, con il suo consueto spirito, diceva che si era scocciato, mi lasciava le cose da fare e se ne andava a casa." 

 

NICOLODI

Daria Nicolodi (1950 - 2020)

 

La parola a Daria Nicolodi [2]

 

(Ho girato La Venere d'Ille) "subito dopo Shock, ero magrissima. È un po' come la storia di Primo Amore (2004), il film di Matteo Garrone: mi ero innamorata di una persona che mi voleva molto magra, e alla fine avevo preso gusto a questo terribile esercizio sadomasochista, ed ero scesa a 38 chili. Mario, sul set de La Venere d'Ille, cominciò a mangiare sempre con me. Solitamente non amava pranzare con gli attori, perché si annoiava. Diceva che nella sua vita aveva conosciuto solo due attori intelligenti: una donna, la sottoscritta, e un uomo, Aldo Fabrizi. Strano: una secca secca e un ciccione. Mangiavamo insieme perché voleva farmi innamorare del cibo, sapeva che ero a un livello di magrezza pericoloso per la mia salute. Quando mi vedeva un po' nervosa, mi faceva delle sorprese; in un'inquadratura de La Venere d'Ille, lui spaziò tra i miei occhi, il naso e la bocca, come disegnando una zeta, per gioco. Poi c'è il finale, che era una specie di dichiarazione personale, in cui Marc Pored dice: «Tu non sei una donna, sei due donne. Non stai mai ferma e non riesco a comprenderti». Sul set ci scambiavamo delle impressioni che poi rimanevano sulla pellicola, ed era molto gratificante avere un'anima così pura e nobile che ti leggeva dentro. Sul set era buono e mite. E fuori? All'epoca lui abitava sulla Cassia, mentre io stavo al quartiere Prati. E quando finivamo di lavorare, mi riaccompagnava a casa. E non lo faceva per galanteria, lo faceva perché mi vedeva come una creatura fragile, e quindi durante questo tragitto avevamo modo di raccontarci un sacco di cose. La Venere d'Ille la girammo a Castelnuovo di Porto, per cui ci voleva un'ora di tempo per tornare la sera a Roma, e lui spendeva un'altra mezz'ora per riaccompagnarmi, nonostante gli orari di lavoro fossero molto lunghi. Mi faceva parlare, mi ascoltava, mi dava coraggio, e io imparavo molto da lui. Lo sentivo vicino come un mago. Era buffissimo, faceva delle battute che ti facevano morire dal ridere, smitizzava tutto. Era un misto di ironia e d'umiltà, portate a un grado d'incandescenza alchemica, supportata da una mente fantasiosa e speciale. Un giorno feci incorniciare un suo storyboard di Shock, e gli chiesi di firmarlo. Non voleva farlo. Mi raccontò che da bambino, emulando il nonno e il padre, aveva tutta una dinastia di artisti alle spalle, realizzò un grande quadro figurativo e lo firmò. Si beccò uno sganassone dal padre, che gli urlò: «Chi cazzo sei tu? Sei Raffaello? Perché firmi un quadro? Sei Mario Bava, non sei nessuno!». La lezione fu di una durezza tale che rimase così: sottotono." 

 

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La Venere d'Ille: Daria Nicolodi 

 

Anticipazione pubblicata su "La Stampa" [3]

 

"Chi ama i racconti dell'horror — o comunque del mistero e della fantasia allucinata — non si perda stasera La Venere d'Ille, da una novella di Prosper Mérimée. È un telefilm (dura esattamente un'ora) di produzione italiana, e già questo costituisce un motivo di curiosità e di interesse. Secondo, porta la firma di uno dei «maestri», dell'horror italiano, un regista tanto abile e coscienzioso, e dotato di mestiere e di estro, quanto affetto da un'inguaribile e perniciosa modestia: Mario Bava, deceduto l'anno scorso, autore di thrillers di tutto rispetto alcuni dei quali saranno trasmessi in una rassegna autunnale. Questo è il suo ultimo film, e a lui si è associato il figlio Lamberto che ne segue degnamente le orme. Non starò ad esporre la vicenda, sarebbe un togliere il gusto della suspense agli spettatori di stasera. Dirò solo che la sottile storia — quasi uno scherzo macabro, un «sogno di provincia» — si svolge nella campagna francese dell'Ottocento ed è dominata dalla presenza enigmatica di una statua greca di Venere nel parco di una villa, una statua che porta inciso il motto «Guardati da chi ti ama». Inconfondibile lo stile di Bava: rapido taglio narrativo, graduale e incalzante clima di disagio e di attesa paurosa attraverso occhiate, gesti, oggetti (tende che sventolano, porte che scricchiolano), ombre cupe, angoli di luce, rumori, musiche. Oltre a ciò, una descrizione precisa di un ricco ma rozzo ambiente provinciale con il grottesco dei due padroni di casa e il «mostruoso» di un immane pranzo di nozze tra carni squartate, bevute e facezie grossolane. Sul tutto, l'incubo della statua, e i lampi di un erotismo che si consuma nei boschetti o in camere illuminate dai bagliori del camino. A posto gli attori: Daria Nicolodi, Marc Porel, Fausto Dibella e la coppia degli anziani, sfasciati e voraci, formata da Adriana Innocenti e Mario Maranzana. Il telefilm è il primo di una serie intitolata «I giochi del diavolo» che comprenderà La presenza perfetta di Piero Nelli, da Henry James; L'uomo di sabbia di Giulio Questi, da E.T.A. Hoffmann; La mano indemoniata di Marcello Aliprandi, da Gerard de Nerval; Il sogno dell'altro di Giovanna Gagliardo, da H.G. Wells; Il diavolo nella bottiglia di Thomas Sherman da Robert L. Stevenson. Finalmente. La Rai produce sbalorditivi e, a mio avviso, anacronistici kolossal che costano miliardi e miliardi, o film che poi tiene assurdamente nel cassetto per liberarli dopo mesi o anni (vedi La ragazza di via Millelire che solo adesso arriva nelle sale): ma non si è mai dedicata seriamente ai telefilm. È questa la volta buona? La scelta dei testi — e sono tutti testi raffinati, appassionati e intriganti, di grandi autori — è stata affidata ad Italo Calvino: sono stati mobilitati registi (Mario Bava in extremis, non lo si poteva far lavorare anche prima?) e attori di nome. L'esordio è più che promettente, di un livello produttivo e artistico che dà dei punti a parecchi racconti di importazione, con finezze e scaltrezze che quelli manco si sognano. Sarà la volta buona, la volta che invece di comprare, riusciremo a vendere telefilm all'estero?"

 

Purtroppo l'autore del testo, assolutamente avanti nel tempo (in Italia) per aver espresso un giudizio entusiasmante e condivisibile sull'opera di Mario Bava, si firma U. Bz.

 

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La Venere d'Ille: scena

 

Critica

 

"Un ennesimo gotico, canonico e in costume, è quello che Bava dirige nel 1979: La Venere d'Ille, un mediometraggio per la serie televisiva I giochi del diavolo - Storie fantastiche dell'Ottocento. Lamberto questa volta firma ufficialmente la regia insieme al padre, e la sceneggiatura assieme all'illustre critico Cesare Garboli. Il soggetto è, ancora una volta, decisamente classico: il racconto omonimo di Prosper Mérimée (1837). Bava suggella specularmente la propria opera tornando al fantastico ottocentesco, facendo un cinema come ormai non si usa più. E le fiamme che aprivano La maschera del demonio chiudono, dopo molti altri suoi film, anche La Venere d'Ille. (...) Più che nei casi precedenti di adattamento di testi letterari, la fedeltà al testo d'origine è puntigliosa, anche se né pedante né illustrativa. A dire il vero c'è una prima infrazione, madornale quanto inevitabile: il testo di Mérimée è raccontato da un narratore in prima persona, mentre Bava rinuncia alla voce fuor campo - il classico procedimento con cui al cinema si soggettivizza il racconto - e dà invece corpo, volto e nome a quella che, nel testo, era una voce anonima. Mathieu (Marc Porel) attraversa gli eventi come un testimone solo parzialmente coinvolto, mai veramente in pericolo anche se non è insensibile al fascino delle due Veneri, e destinatario, almeno una volta, di un'apparizione minacciosa: quando vede riflessa la statua nel vetro della propria finestra, ma come se la Venere si trovasse dentro la stanza, e non fuori, come nella realtà. L'innovazione della sceneggiatura rispetto al racconto di Mérimée sta nell'accentuare l'identificazione di Clara (nome assente nell'originale) con la statua maligna. Mérimée vi alludeva quasi di sfuggita: in un primo momento, quando il narratore confronta le due creature («La sua [della sposa] espressione di bontà, che pure non era priva d'una sfumatura maliziosa, mi ricordò, mio malgrado, la Venere del mio ospite. Facendo dentro di me tale confronto, mi chiedevo se l'evidente superiorità di bellezza della statua non dipendesse dalla sua espressione tigresca»); poi quando il padre, ubriaco, celebra le 'due Veneri' che ha in casa. Bava, invece, costruisce fin dall'inizio una rete di segnali per suggerire un'affinità tra Clara e la statua. La prima apparizione di Clara è un breve flash in primo piano, quando il contadino parla a Mathieu della «faccia da malvagia» della Venere. In seguito Mathieu, anziché ritrarre la statua, disegna Clara: forse aiutato dal fatto che la statua ha una rassomiglianza non casuale con la Nicolodi. Clara come reincarnazione di Venere apparterrebbe quindi a pieno diritto alla sfera del meraviglioso: e la sposa pudica in costume Impero cela una natura doppia (arriva infatti a baciare lo sconcertato Mathieu di propria iniziativa), quasi unendo nella stessa persona gli opposti che, in La maschera del demonio, avevano identità separata. Ma la rete di allusioni fin troppo esplicite non porta da nessuna parte: l'episodio finale, nella camera nuziale, rovescia le carte e riapre le porte del fantastico, ossia dell'ambiguità e dell'incertezza. L'identificazione Clara-Venere si spezza, e la prima ne diventa anzi vittima. Quanto alla natura della presenza che entra in camera da letto, e a ciò che succede nel talamo, Bava è ancora più reticente di Mérimée che, sia pure per bocca della sposa sconvolta, descriveva il povero Alfonso a letto con il «gigante verdastro della statua di bronzo». Nel film di Bava la Venere omicida, per quanto preceduta dalle canoniche soggettive minacciose con rumori di passi da convitato di pietra, si vede ancora di meno che nel racconto: e in questo modo il ridicolo è scongiurato, e il dubbio permane. Per descrivere il terrore di Clara, Bava può tornare a far uso di luci azzurre, arancioni e gialle come negli anni d'oro, grazie anche a un bravo direttore della fotografia come il giovane Nino Celeste; ma l'orrore è coperto dall'ellissi, e lascia aperti spiragli più inquietanti. Senza scomodare la psicoanalisi, La Venere d'Ille, più che la storia di una statua omicida, è un piccolo saggio di misoginia, con annessa paura di castrazione. La Venere prima si tiene l'anello, e poi si prende tutto il resto. L'unico sangue che scorre è quello del maiale sventrato che compare subito dopo l'apparizione della statua a Mathieu. Il cibo (la cena in cui Mathieu viene ingozzato, i preparativi per il banchetto di nozze e il banchetto stesso) e il sesso (nella forma degli svaghi ancillari di Alfonso) costituiscono il controcanto basso alla sfera del fantastico. È un mondo ben concreto, descritto da Bava con gusto bozzettistico e realista, quello in cui fa irruzione il soprannaturale. Il teorema, però, non si chiude: e come l'ordine viene spezzato per sempre nel racconto, così il film rimane aperto, non spiegando nulla. Classicamente ambiguo."

(Alberto Pezzotta) [4]

 

"Bava è riuscito a cogliere anche molte delle insenature del racconto e a scrivervi dentro una splendida rappresentazione di una cultura contadina e mediterranea nella quale si vedono convivere e intrecciarsi elementi solari e lunari (il lato materiale, razionale, religioso col lato lunare, irrazionale, magico, del mondo e della cultura contadina mediterranea). Pagine colte che non restano inerti, fini a sé stesse, ma che diventano in Bava occasione di racconto, pretesto narrativo. E, infatti, proprio cogliendo questo tratto culturale del mondo rappresentato che Bava riesce a giustificare diegeticamente e linguisticamente la splendida zoomata che collegando la luna alla terra dà il via a quella magistrale ultima parte del racconto, tutta giocata sul perfetto uso dell'esitazione fantastica, in cui la terra e il cielo, il razionale e l'irrazionale, si congiungono per determinare lo choc fantastico grazie al quale il racconto raggiunge il suo climax e il suo senso. E dopo l'orrore della notte, nella quale il cielo e la terra, l'inerte e il viatel, il noto e l'ignoto si sono drammaticamente uniti, nulla viene a sciogliere, il mattino successivo, l'enigma della sera..." [5]

(Gualtiero Pironi)

 

"Innanzitutto è evidente la consumata dimestichezza col genere: Bava utilizza la fonte prestigiosa senza impacci né sudditanze di sorta, come spunto narrativo che non si fa mai opprimente. Secondo Pironi, è riuscito a cogliere anche molte delle insenature del racconto e a scrivervi dentro una splendida rappresentazione di una cultura contadina e mediterranea nella quale si vedono convivere e intrecciarsi elementi solari e lunari (il lato materiale, razionale, religioso col lato lunare, irrazionale, magico del mondo e della cultura contadina mediterranea). [...] È, infatti, proprio cogliendo questo tratto culturale del mondo rappresentato che Bava riesce a giustificare diegeticamente e linguisticamente la splendida zoomata che collegando la luna alla terra dà il via a quella magistrale ultima parte del racconto, tutta giocata sul perfetto uso dell'esitazione fantastica, in cui la terra e il cielo, il razionale e l'irrazionale si congiugono per determinare lo choc fantastico grazie al quale il racconto raggiunge il suo climax e il suo senso. Viene spontaneo vedere nel film una sorta di summa dell'opera baviana e del gotico italiano in generale: ma in questo modo si tende a sottovalutare l'apporto del co-sceneggiatore Cesare Garboli, illustre critico e studioso dell'opera di Elsa Morante e Natalia Ginzburg. Per vie traverse, Garboli e Bava arrivano, attraverso il racconto di Mérimée, a un tema ben più ampio, che nel gotico - cinematografico e letterario - trova cittadinanza, e che qui diventa centrale: la condizione della donna. La Venere bronzea che, estratta dalla terra, segna la rovina della facoltosa famiglia dei Peyrehohade, è una presenza aliena la quale mette sotto scacco gli ingranaggi del patriarcato, e il suo continuo abuso della condizione femminile. Il personaggio dell'artista Mathieu (Marc Porel), alter ego del narratore in prima persona di Mérimée, è testimone del ruolo femminile in una società al maschile, godereccia e volgare, in cui la donna, come il cibo continuamente presente in scena, è qualcosa da prendere e consumare per poi passare oltre (si veda la scena in cui una servetta offre implicitamente, assieme a un vassoio carico di leccornie, anche il proprio corpo al padrone Alfonso). Ma Mathieu, nella sua ostinazione a concepire l'amore solo in chiave spirituale e idealizzata, è l'ennesima figura di spettatore debole o impotente del fantastico italiano: disegnatore incapace di ritrarre la sua modella così come, da uomo, non è in grado di capirla. Il matrimonio tra Clara (Daria Nicolodi) e Alfonso (Fausto Di Bella) diventa un'ulteriore umiliazione con il rito della giarrettiera rubata alla sposa e fatta a pezzetti dagli ospiti che se la dividono, anticipazione della verginità che Clara si appresta a perdere la prima notte di nozze. E tuttavia, nonostante il forzato asservimento, Clara - e con lei ogni donna - resta irraggiungibile: se il suo destino è quello di servire l'uomo, la sua vittoria è nell'alone di impermeabilità che la divide dalla società degli uomini. Se ne accorge Mathieu, incapace tanto di fissare i lineamenti di Clara su carta quanto di capire cosa leghi quella donna altera, sensibile, intelligente al volgare, tronfio Alfonso: «Non riuscirò mai a fare il vostro ritratto... non riesco a tenervi ferma, cambiate sotto gli occhi, voi siete due persone». Mathieu confonde la Venere con Clara, e nel ricordo mescola le due immagini. Se l'indecisione tra animato e inanimato, originale e simulacro, è una tematica tipica del cinema di Bava, in La Venere d'Ille il tema del doppio non è declinato in senso manicheista, a dividere la santa dalla puttana, l'innocente dalla strega: ma è un modo per sottolineare la complessità del femminino, che nonostante i tentativi di possesso - la seduzione, il matrimonio, persino l'atto di scolpire una donna e renderne eterne le fattezze in una statua di bronzo - è aereo, irraggiungibile, impossibile da comprendere in maniera univoca. Tanto che nella scena più ambigua del film, quando Mathieu incontra quella che crede Clara in giardino, di sera, le due entità sembrano fondersi. «Povero Mathieu, siete sempre a chiedervi chi io sia... eccomi, non mi vedete, forse?» lo motteggia la donna, che lo provoca baciandolo: e in quel momento Bava identifica esplicitamente Clara e la Venere, facendo baluginare al dito della donna quello stesso anello di diamanti che Alfonso ha infilato all'anulare della statua. Ma l'approccio termina con un brusco rimprovero: «Anche tu sei come tutti gli altri... anche tu non sai sacrificare all'amore». Ciò che importa non è che la Venere abbia assunto foggia umana, ma quello a cui la repentina identificazione allude: Clara, e la Venere, sono superiori, e vincitrici, poiché sanno «sacrificare all'amore», cosa di cui gli uomini sono incapaci, e dunque destinati al fallimento, impossibilitati a riunire sublimazione platonica (Mathieu) e impulso carnale (Alfonso). Certo, anche Clara è una vittima: perché acconsente a sposare un uomo che non ama e che la vuole per il suo denaro, e perché dopo aver assistito alla morte di Alfonso - ucciso la notte di nozze dalla Venere rediviva - precipiterà nella follia. Eppure c'è un visibile compiacimento nella sua voce, quando svela a Mathieu la sua attrazione fisica per il futuro marito; e sia nella sequenza in cui si prepara alla notte di nozze facendo il bagno circondata da ancelle, sia nel fremito con cui accoglie l'ingresso di quello che crede il consorte nella camera da letto, Clara esprime una sensualità che la rende più attiva e partecipe di una candida eroina romantica. Come la protagonista di Il sangue d'agnello di Mandiargues, nel momento in cui sceglie di donarsi all'uomo, sacrificandosi all'amore, Clara lo porta alla rovina: che in questo caso è data dal mortale abbraccio della Venere. La dea dell'amore che stritola nel letto nuziale il giovane sposo il quale, inavvertitamente, ha stretto con lei una promessa di matrimonio, è certo una nemesi, l'ennesima incarnazione del mito della 'vagina dentata'. Ma da fantasia misogina, quale era in Mérimée, nel mediometraggio di Bava essa diventa, in un periodo storico caratterizzato dalle lotte femministe, un simbolo di rivalsa (lo stesso Garboli aveva curato, alcuni anni prima, l'introduzione alla riedizione di Nascita e morte della massaia della «femminista ante litteram» Paola Masino, esemplare apologo surrealista sul ruolo della donna nella società patriarcale). È stato da più parti notato come il finale di La Venere d'Ille, con statua, fusa per essere trasformata in campana, ricordi l'incipit di La maschera del demonio, a cesellare in maniera speculare la filmografia del regista. Tuttavia, l'espressione della statua tra le fiamme è quella di un beffardo, crudele sorriso: messa al rogo, dissolta nella sua identità - e con crudele contrappasso trasformata da simbolo pagano a oggetto sacro - ma sempre e comunque irraggiungibile. E dunque vincitrice. Se da un lato Bava piega il suo stile inconfondibile a una piattezza narrativa di stampo televisivo, dall'altro La Venere d'Ille conserva alcune immagini tipiche del regista, dagli attacchi di montaggio sul sole al tramonto all'alchimia dei colori nella scena della morte di Alfonso, al raffinato gioco di trasparenze che svelano il terrore di Daria Nicolodi in attesa sul letto dietro alle tende del baldacchino. Se spezza l'ambiguità della pagina (dove l'esitazione fantastica permane più a lungo: della morte di Alfonso viene inizialmente accusato uno spagnolo innocente, e solo dal racconto della sposa emerge l'incredibile verità) abbracciando da subito il fantastico, Bava evita di mostrare la Venere rediviva, e opta per una risoluzione più allusiva che in Mérimée, tra soggettive e presenze appena indovinate. Il dettaglio della mano della Venere che emerge dal terreno, e che ricorda altre analoghe mani inanimate nell'opera del regista - da quella dello spettro che entra in campo in La goccia d'acqua al soprammobile di ceramica di Shock - obbedisce alla predilezione di Bava per il dettaglio surreale; e l'immagine della Venere riflessa nel vetro di una finestra, di modo che non si capisce se si trovi dentro o fuori dalla stanza di Mathieu (un episodio assente nella novella), rimanda da un lato alla tipica minaccia baviana separata da una barriera illusoria (I Wurdalak, le apparizioni di Melissa in Operazione paura), dall'altra opera uno spiazzamento, confondendo per un attimo le coordinate spaziali del personaggio e dello spettatore. Ma il momento più significativo è quello in cui la luce del mattino illumina una parte del ritratto di Clara disegnato da Mathieu in corrispondenza degli occhi, donando finalmente al disegno quella vita che l'artista non era riuscito a infondergli: un'immagine che ricorda quella di Daliah Lavi a letto, accarezzata dalla luce lunare, in La frusta e il corpo, e che sintetizza come il «maestro del brivido», secondo la definizione dello stesso Garboli, fosse dopotutto un poeta, inesorabilmente attratto dal mistero femminile."

(Roberto Curti) [6]

 

"Caratterizzato da un'impeccabile eleganza formale e da un'ineccepibile cura dei dettagli, il film si distanzia dalle opere precedenti per l'assenza di sequenze truculente ed effetti speciali, indulgendo al contrario nel tentativo di creare un'atmosfera rarefatta e pienamente controllata, resa ancora più marcata da una colonna musicale composta da brani di musica classica, che funge da filo conduttore della storia. Bava sceglie consapevolmente di non mostrare i movimenti della statua, della quale vediamo sempre la fissità, l'immobilità, quasi fosse un simulacro della morte; né vediamo il delitto di cui si macchia, in un'assenza di pathos che è forse l'estremo tentativo di un regista la cui carriera è stata segnata in gran parte da thriller di forte impatto emotivo, di rappresentare la tragedia della morte sotto una forma diversa. Notevole l'interpretazione dell''argentiana' Daria Nicolodi, qui a suo agio nel ruolo della giovane promessa sposa che non disdegna però le malcelate avances dell'uomo di città, il quale finisce per confondere la donna con la statua. Ed è proprio in questo intreccio di travisamenti mascherati, nel quale vengono coinvolti anche i personaggi, che risiede la struggente bellezza di La Venere d'Ille, sorta di testamento spirituale di Bava, che apre al figlio Lamberto le porte di una carriera che non eguaglierà mai quella del padre. Se è virtualmente  indistinguibile l'apporto della coppia padre/figlio a livello di regia, è impossibile però non rilevare la mano del padre nel rigore delle inquadrature, nella misurata compostezza di tutti gli attori e nel montaggio avvolgente che dona alla pellicola un'impressione di efficace uniformità; ma vanno rilevate anche un paio di soggettive del punto di vista della statua che scardinano, anche se per pochi secondi, il continuum del film, generando una sensazione di spaesamento. La dicotomia tra Eros e Thanatos, quindi, lungi dall'essere rappresentata con drammaticità, si rivela soprattutto nel contrasto tra la staticità della statua e la dinamicità della vita 'libertina' di Alfonso (il quale tradisce la futura moglie con la serva), ma trova un inusuale contraltare nel temperamento flemmatico di Mathieu, forse l'unico a individuare la responsabile dell'omicidio, ma incapace di dare corpo con una rivelazione liberatoria alla sua personale ossessione per la Venere." 

(Davide Di Giorgio) [7]

 

"Breve film televisivo, è l'ultimo film del maestro del macabro italiano, Mario Bava, e il primo, in un simbolico passaggio di consegne, di suo figlio Lamberto. Delicato e soffuso melodramma gotico, è tratto da Prosper Merimée e segna un ritorno per Mario Bava all'horror in costume nel quale aveva dato alcune delle sue opere migliori nel decennio precedente. Libero dai condizionamenti commerciali, Bava, con il valido apporto del figlio, può realizzare un'opera arcana, magica e sentimentale che basa il suo fascino sull'insondabilità del soprannaturale e la sua forza di attrazione. La messa in scena risente dell'origine televisiva - il film è inserito nella serie I giochi del diavolo-Storie fantastiche dell'Ottocento - ma l'atmosfera che riesce a creare è affascinante e genuina."

(Rudy Salvagnini) [8]

 

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Mario Bava

 

Dicono di Mario Bava 

 

Pupi Avati (regista) [9]

"Non mi sono mai servito di Mario Bava nei miei film. Bava era un regista e una persona che ho amato, al punto che l'anno prima che morisse, dandogli una grande gioia, abbiamo prodotto il primo film del figlio, Lamberto. E adesso stiamo montando il suo secondo. Questo certo non solo perché è il figlio di Mario Bava, ma anche perché lo è, perché Mario era un uomo straordinario. Mario mi diede dei suggerimenti per un trucco speciale in Bordella, quello dell'uomo che doveva scomparire. Ma così, amichevolmente. Non abbiamo mai lavorato insieme."

 

Duccio Tessari (regista) [10]

"Una persona deliziosa un grande maestro di trucchi e di effetti speciali che sa tutto su questa materia. Fosse vissuto negli anni d'oro di Hollywood sarebbe stato un maestro di prima grandezza, proprio perché come regista è abbastanza banalotto, mentre come maestro di trucchi e di effetti è straordinario. Nei film mitologici Bava con una pentola di polenta messa a bollire con quel tanto d'acqua faceva una spianata con tanti crateri infernali. Oppure con una cassetta d'acqua compressa e un clistere riempito di cappuccino creava il fumo di una bomba atomica: straordinario. Un uomo d'una inventiva pazzesca, un vero e proprio mago."

 

Mario Bava su sé stesso [11]

"Per quel che riguarda l'estetica, quando guardo uno dei miei film vomito."

 

Martin Scorsese (regista) [12]

"Mi piacciono molto anche i film di Mario Bava nei quali non c'è praticamente storia, solo atmosfera, con tutta quella nebbia e le donne che camminano lungo i corridoi: sono una sorta di gotico italiano...(...) Bava mi sembra appartenere al secolo scorso..."

 

Joe Dante (regista) [13]

"Bava filmava la morte così amorevolmente che mi faceva sentire un perverso, appena fuori dal cinema. Nessun altro ha fatto queste cose tanto bene."

 

Tim Burton (regista) [14]

"Di tutti i film che ho visto, quello che mi torna sempre in mente è La maschera del demonio di Bava. È buffo perché non riesco a ricordarmi la trama, per quanto lo riveda spesso. Eppure resta sconvolgente, e le sue immagini ti bruciano nella testa. Mi ha mostrato il magnetismo, il mistero e il potere del cinema, e mi ha fatto capire che qualche volta ci sono cose più importanti di una storia lineare."

 

 

NOTE

 

[1] [2] "Il narratore di fiabe - Intervista a Lamberto Bava", su "Kill Baby Kill! - Il cinema di Mario Bava" (Un Mondo a Parte), pag. 244; 204.

 

[3] Da "La Stampa" del 13 maggio 1981.

 

[4] "Mario Bava" (Il Castoro), pag. 129 - 130 - 131.

 

[5] "Quando il diavolo della teatralità ci mette la coda..., Cineforum n. 206 (agosto 1981). Recensione riportata anche su "Kill Baby Kill! - Il cinema di Mario Bava" (Un Mondo a Parte), pag. 294.

 

[6] "Fantasmi d'amore - Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV" (Lindau), pag. 386 - 387 - 388 - 389 - 390 - 391.

 

[7] "Mario Bava - Il rosso segno dell'illusione" (Sentieri Selvaggi), pag. 179 - 180.

 

[8] "Dizionario dei film horror" (Corte del Fontego), pag. 764.

 

[9] [10] [11] "Mario Bava - I mille volti della paura" (Profondo rosso edizioni), pag. 144; 143; 188.

 

[12] [13] [14] "La famiglia Bava - Cento anni di cinema", a cura di Luigi Cozzi (Profondo rosso edizioni), pag. 97.

 

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La Venere d'Ille: Daria Nicolodi e Marc Porel 

 

"La forma plastica non rappresenta la figura, ma la sublima, ne trasforma l'essenza, [...] la cala e la isola nello spazio reale e, isolandola, la idealizza [...]: forma-oggetto che risolve in sé ogni relazione spaziale, si racchiude in un involucro impenetrabile, si pone come presenza altamente problematica dell'ideale nel reale, dell'assoluto nel relativo."

(Antonio Canova)

 

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Prosper Mérimée (1803 - 1870)

 

F.P. 30/07/2023 - Versione visionata in lingua italiana su RAI Play (durata: 60'49")

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