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I basilischi

Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film

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FABIO1971

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La recensione su I basilischi

di FABIO1971
8 stelle

L'esordio cinematografico di Lina Wertmüller ed il suo piccolo, insuperato capolavoro, Vela d'argento per la regia e premio internazionale della stampa al festival di Locarno: i basilischi sono le gigantesche lucertole che trascorrono il tempo pigramente spiaccicate sulle pietre infuocate dal sole (e, in araldica, la loro immagine appare non a caso negli stemmi di molti comuni di Puglia e Basilicata). I protagonisti del film hanno proprio le loro movenze, stanchi, apatici, insoddisfatti, fiaccati dall'afa e dalla tediosa routine di giornate sempre uguali, che scorrono lente e pesanti nell'abulica ritualità di gesti e consuetudini. E proprio dalla descrizione della siesta pomeridiana in un paesino del profondo Sud, tra Puglia e Lucania, prende le mosse il film ("È la controra di un giorno d'estate, ma pigliamo un giorno qualsiasi, forse dell'anno scorso, forse dell'anno prossimo, tanto è uguale"), introducendo i suoi personaggi principali, un gruppetto di tre giovani sfaccendati di buona famiglia (ma con cui litigano sistematicamente) che non hanno voglia neanche di organizzare una festa ("Ma possibile che in questo paese non succede mai niente? Ma che è qua, voi giovanotti, non lo so, scappate o, se rimanete, vi addormentate al circolo"), perchè tanto non vi parteciperebbe nessuno, e nemmeno fretta di emigrare a Roma o in qualche metropoli del Nord, e che conducono svogliatamente i loro studi universitari nella pia illusione di una laurea e di una futura carriera verso cui ripongono ben poche aspettative. Percorrono con passo strascicato le viuzze del paese con l'unico chiodo fisso delle donne (somigliando, in questo, ai "vitelloni" felliniani), sperando in un appuntamento con ragazze che le rispettive famiglie tengono segregate in casa per evitare che si "compromettano". Quando uno dei tre, Antonio, riceve la visita di alcuni parenti romani, viene convinto a ripartire con loro per la capitale in cerca di avventure e successo: quelli che rimangono al paese provano ad organizzare una cooperativa agricola, ma, scontrandosi con le paure e la diffidenza degli altri contadini, dovranno desistere dall'intento. E, dopo qualche tempo, anche Antonio tornerà a casa: per salutare i vecchi amici, dice lui, in realtà con tutte le intenzioni di rimanerci ancora per molto. Lina Wertmüller prosegue, a pochi anni di distanza, le riflessioni socio-culturali sull'emigrazione del Visconti di Rocco e i suoi fratelli ("Non dobbiamo scappare, non dobbiamo andare via, è qua che dobbiamo stare, è qua che devono cambiare le cose e, se ce ne andiamo tutti, qua chi resta?") con uno sguardo tutt'altro che conciliante ed i graffi rabbiosi dell'indignazione (il suicidio della vecchietta), stemperati nei caustici umori di un'ironia affilatissima ed amara, sfuggendo i rischi del macchiettismo da commedia con l'incisività di toni dell'affresco ambientale, con le sfumature dolenti o amene della sceneggiatura, che sospendono tra grottesco e tragedia la grigia quotidianità esistenziale dei suoi personaggi sull'orlo della depressione, con il gusto pittorico nella composizione delle inquadrature e nella cura della messinscena (con il magnifico bianco e nero della fotografia di Gianni Di Venanzo e la suggestiva colonna sonora di Ennio Morricone) e con la sapiente direzione degli attori (con, su tutti, uno scatenato Stefano Satta Flores). Ne emerge un ritratto lucido ed appassionato, anche esilarante nell’estremizzazione bozzettistica della critica di costume, immersa in un controcanto iperrealistico che ne trasfigura le istanze di denuncia sociale nella coralità sofferta e sofferente dei suoi eroici "basilischi" senza più ambizioni.

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