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Certain Women

Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film

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La recensione su Certain Women

di Peppe Comune
8 stelle

Laura (Laura Dern) è un avvocatessa e sta seguendo legalmente un uomo (Jared Harris) il quale, per non aver seguito i consigli della donna riguardo una causa di risarcimento, subisce l’onta del carcere. Ma Laura non lascerà solo il suo cliente. Gina Michelle Williams) ha un rapporto difficile con la sua famiglia, sia con il marito “fedifrago” (James Le Gros) che con Guthrie (Sara Rodier), la figlia. Il suo sogno è costruire una casa tutta loro in un appezzamento di terreno nel bosco. Si impegna molto per questo, e chiede ad Albert (Rene Auberjonois), un abitante del luogo, di vendergli le pietre già lavorate ricavate da una vecchia scuola andata in rovina. Jemie (Lily Gladstone) tiene a bada i cavalli in un ranch. Una sera, quasi per caso, si infila in un aula di una scuola dove si tiene un corso per aspiranti avvocati. A tenere la lezione è Elizabeth (Kristen Stewart), che si fa quattro ore di viaggio (andata e ritorno) per essere puntuale al corso. Tra le due ragazze si instaura un certo feeling che significherà per entrambe vincere le rispettive ritrosie. Tre storie di donne ambientate a Livingstone, nel Montana, tutte attraversate da un velo di sottaciuta malinconia che, come un percorso carsico, accomuna le vicende esistenziali di ognuna.

 

Kristen Stewart

Certain Women (2016): Kristen Stewart

 

“Certain Women”  di  Kelly Reichardt (tratto dai racconti di Maile Meloy) è un film minimalista pieno di contenuti formali, parla sottovoce, ma fa sentire forte l’eco delle insoddisfazioni emotive. Insinua poco alla volta la sensazione di trovarci di fronte ad un quadro umano da cui volersi distaccare non prima di averlo penetrato fino in fondo. L’idea che se ne ricava subito è quella di un’evanescenza narrativa che sembra non dover condurre a nulla di particolarmente interessante. Ma poi ci si rende conto che dietro quel nulla apparente c’è tutta la disarmonia esistente tra gli esseri umani, una disarmonia che si intona alla perfezione con la somma algebrica di tante solitudini le quali, anche quando si incontrano, non riescono mai a capirsi come dovrebbero. La bravissima Kelly Reichardt ci porta nel Montana, nel cuore “iconografico” della “vecchia” America, tra montagne innevate che si stagliano all’orizzonte, un vento che soffia sempre forte, lingue stradali interminabili e treni merci arrugginiti dall’usura del tempo. Un ambiente dall’aria dismessa insomma, che sembra dimenticato dal centro e che del centro nevralgico del paese sembra ricevere solo una labile percezione, come una cosa lontana cui si è smesso di ambire. Una sensazione questa ricavata attraverso una caratterizzazione d’ambiente davvero puntuale, con dei movimenti di macchina che si aprono a ventaglio su un territorio dalla spazialità sterminata, agendo quasi per contrasto tra l’insistere continuo su delle minute esistenze, colte all’apice del loro monotono reiterarsi, e la maestosità di panoramiche “fordiane” che cambiano sempre il proprio scenario naturalistico. A mio avviso, è per mezzo di questo equilibrio ricercato tra la forma conferita alla messinscena e i suoi contenuti narrativi, che Kelly Reichardt ha ottenuto di fare della distanza il tema centrale del film. Innanzitutto, la distanza va intesa in senso fisico, ovvero, come un qualcosa che, agendo sul rapporto spazio-tempo dilatandolo a dismisura, fa della lontananza un elemento chiaramente divisivo nell’istaurarsi di proficui rapporti umani (si pensi, ad esempio, al tempo che occorre ad Elisabeth per coprire lo spazio che separa Livingstone dalla cittadina dove tiene il corso). Ma la nozione di distanza va intesa soprattutto in senso emotivo, ricavata dalla difficoltà di ognuna delle donne a comunicare i propri sentimenti, o dalla patina di malinconia stampata sui loro volti. Una distanza che può essere lunga o corta, dipende da quanto si è pronti a mettersi ad ascoltare l’altro, a sintonizzarsi lungo una stessa frequenza sentimentale. Kelly Reitchardt misura questa distanza utilizzando come metro di riferimento l’emotività precarie di quattro donne diverse, ognuna colta mentre è in procinto di colmare la propria distanza, quando interviene almeno un elemento a forniregli un valido appiglio emozionale. Laura con il suo cliente, i cui dubbi evidenti circa sulle capacità professionali dell’avvocato, non impediscono alla donna di rispondere presente alle sue richieste d’aiuto, di capire le ragioni che hanno spinto l’uomo a preferire la prigione sicura alla resa processuale. Bella la scena in cui Laura va a trovarlo in carcere e gli porta un frappè alla vaniglia che a lui piace tanto, segno di una complicità umana che si intende restaurare bel aldilà del rapporto professionale che intercorre tra di loro. Gina con la sua famiglia, con un marito che la tradisce (durante il film si capisce con chi) e una figlia che preferisce molto di più la compagnia del padre. La casa che sogna di costruire potrebbe servire a rafforzare le fondamenta del loro rapporto filiale. Gli sarebbero molto utili delle pietre già lavorate che “stanno li dal 66, da quando i colonizzatori del luogo vi costruirono una scuola”, spiega Albert, che non riuscirà a reggere lo sguardo alla vista di quelle pietre caricate su un camion per essere portate altrove. Jemie con il mondo che le ruota intorno, che la scopre sola con i suoi amati cavalli da accudire. Elisabeth gli sembra proprio il tipo di ragazza che la può aiutare a colmare il suo gap comunicativo, l’avvocatessa acerba che si fa quattro ore di viaggio per maturare esperienze. Un giro sulla groppa di un cavallo (in una sequenza molto tenera) potrebbe servire ad entrambe per superare le rispettive insicurezze.

Ecco, un frappè consumato in un carcere, delle pietre che potranno servire per la costruzione di una casa, lo stare insieme sulla groppa di un cavallo, sono delle scene messe li, tra un prima e un dopo l’evolversi di queste tre microstorie, a rappresentare anche in forma simbolica il tentativo di ognuna delle donne di cercare nell’altro una qualche forma di complicità emotiva, di mettere qualche solida radice in un terreno che va facendosi sempre più franoso. Kelly Reichardt non disegna degli spaccati femminili nel bel mezzo di un’irreversibile crisi esistenziale, ma mentre sono intente a guardarsi intorno e a cercare di abbattere barriere sentimentali che sembrano insormontabili. C’è un America che sta cambiando i suoi connotati originari, e le donne possono rappresentare l’anello di congiunzione ideale con quelle radici che non si dovrebbero smarrire mai.  

“Certain Women” è un film di delicata bellezza che, oltre l’apparente evanescenza narrativa (e mi ripeto), fa emergere importanti qualità formali, di stile e di contenuto. Vivamente consigliato.            

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