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Fires on the Plain

Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film

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La recensione su Fires on the Plain

di Spaggy
8 stelle

Sul finire della Seconda guerra mondiale, l'esercito di occupazione giapponese nelle Filippine è costretto a fronteggiare la resistenza locale e l'offensiva americana. Ridotti al minimo delle forze e senza alternativa alcuna se non quella di tentare la fuga raggiungendo prima Palompon e Cebu dopo, i sopravvissuti devono giocoforza addentrarsi nella natura selvaggia e sfidare malattie, attacchi, allucinazioni e follia, la propria stessa follia dettata dagli orrori vissuti sulla pelle e dall'istinto. Tra i pochissimi ancora in vita vi è il soldato Tamura, salvatosi per coincidenze fortuite dall'attacco all'ospedale a cui si era rivolto per alcuni problemi ai polmoni. Facendosi strada tra arbusti, patate e rivoli d'acqua, Tamura incontra uno sparuto gruppo di connazionali a cui unirsi per tentare l'impossibile.

 

scena

Fires on the Plain (2014): scena

 

Adattando la storia originale di Shoehei Ooka, già trasposta al cinema da Kan Ichikawa nel 1958, il regista giapponese Shinya Tsukamoto ricorre a un uso spregiudicato ed efferato delle immagini per raccontare settant'anni dopo la fine del conflitto armato il prezzo (troppo) alto pagato dai suoi connazionali. Come monito affinché la pace che il Paese ha da allora vissuto non venga mai intaccata da giovani generazioni troppo disattente nei confronti del passato, Tsumakoto passa in rassegna orrore dopo orrore, riuscendo a trasmettere un forte grido di terrore e paura nello spettatore. Il rosso del sangue, che si scaglia contro una natura verde e rigogliosa, si conficca negli occhi di guarda: schizzato da ogni parte possibile del corpo dei militari, esposti a barbarie di ogni tipo, il sangue è quasi tangibile alle nostre mani, grazie a immagini che potremmo definire splatter allo stato puro. Arti mozzati, fontane di giugulari esplose, volti aperti dagli spari, interiora e cervelli spappolati, accompagnano gli attacchi di cui i giapponesi rimangono vittime, senza timore di mostrare l'immostrabile, portando in primo piano organismi in decomposizione e larve in azione.

 

L'istinto di sopravvivenza e la paura della guerra spesso lottano contro la razionalità e il buon senso umano. Nonostante le allucinazioni, le visioni e i bisogni primari reclamati da un corpo ormai sempre più debilitato, Tamura rappresenta l'ultimo baluardo di umanità, colui che resiste al gesto ultimo a cui un uomo che muore di fame è chiamato: mangiare un proprio simile, nutrirsi di carne umana recuperata trasformandosi in assassini dei propri fratelli. L'urgenza della situazione giustificherebbe tale macabro atto, soprattutto quando ormai chiunque può divenire vittima da un momento all'altro: dopotutto, la logica non è complessa. Prima di diventare pasto di parassiti, un corpo può fungere da ultimo baluardo di speranza.

 

Accentuando il peso delle immagini e facendo calare sui volti di un ognuno un'oscurità che sembra senza fine, Tsukamoto si spinge oltre la linea del buongusto ma lo fa per una semplice ragione: chiudere gli occhi sugli orrori dei conflitti significherebbe non conoscere la realtà dei conflitti stessi. Tanto più si è scioccati dalle truci immagini, tanto più si dovrebbe diventare consapevoli del fatto che le guerre non sono né un videogioco su una playstation né un sito internet di giochi di ruolo.

FotP - Clip 1 from Spaggy on Vimeo.

 

 

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