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The Good Life

Regia di Niccolò Ammaniti vedi scheda film

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La recensione su The Good Life

di deepsurfing
8 stelle

 

Niccolò Ammaniti è uno scrittore; un abile scrittore di successo, autore, tra l'altro, di Io non ho paura e di Come Dio comanda, portati al cinema da Salvatores. Ma nel primo film che ha diretto personalmente, The Good Life, abdica al suo ruolo di narratore, a dimostrazione che la qualità di una narrazione può essere non tanto nella tecnica, ma nella qualità del personaggio.

I tre personaggi di The Good Life non sono inventati, perché il film è un documentario. L'abilità dell'autore è stata nello scovarli e nel farli raccontare, in modo semplice e diretto, della loro esperienza. Certo, si racconta anche col montaggio, le inquadrature, la scelta d'atmosfera di un certo luogo e di un certo momento. Ma la sobria eleganza di questo lavoro documentaristico è un riconoscimento della forza di questi tre narratori. Il cui dono è proprio quello che Walter Benjamin riteneva tipico dei narratori, e ormai in via d'estinzione: l'esperienza. (Lo spiega in Il narratore, ripubblicato da Einaudi nel 2011, con un magistrale commento di Alessandro Baricco).

I tre personaggi del documentario di Ammaniti sono narratori improvvisati, ma quel che colpisce è la straordinarietà della loro vita e il modo piano e antieroico in cui la raccontano. Anche loro, come il narratore-artigiano di Benjamin, hanno viaggiato e poi si sono fermati in un posto, accumulando esperienza e saggezza.

Lo sfondo comune delle loro esperienze è l'India, dove tutt'e tre vivono, meta finale di una fuga e di una ricerca di “buona vita”. La fuga è quella dall'Italia degli anni Settanta, dalle convenzioni e dalle anguste prospettive della provincia, forse all'inseguimento del mito hippy dell'India, di certo con la voglia di cercarsi una vita alternativa.

Per molti quel mito è stato solo un cliché romantico, una bolla destinata a scoppiare a contatto con la realtà. Ma per i tre personaggi di Ammaniti è stata una vera conversione, perché l'India, in fondo, ce l'avevano dentro. Due sono diventati dei Baba, dei santoni riconosciuti e rispettati; il terzo, dopo aver fatto per anni il nomade con la sua famiglia, è diventato il capo di una piccola tribù che vive costruendo case tradizionali himalayane.

La loro India è stata soprattutto una scelta di libertà. Baba Shiva Das, fuggito da Vicenza su un pulmino Wolkswagen, dice che l'India “lo ha salvato”, lo ha lasciato essere quello che voleva essere, lo ha lasciato vivere come voleva, senza mai giudicarlo od ostacolarlo. Baba Giorgio, “un povero cristo che è nato nella città di Torino”, ha seguito una voce che lo chiamava verso un posto molto lontano e dopo mille peripezie e dopo essere stato chiuso in una buca per 41 giorni senza mangiare, ha trovato la sua “buona vita” diventando un sadhu, l'asceta custode di un piccolo tempio dedicato a Shiva. Eris è fuggito ragazzino dal trevigiano, ha girato tutto il mondo facendo i lavori più disparati, finché in una zona mite alle pendici dell'Himalaya ha trovato il suo spazio per vivere come voleva, come un pioniere, a capo di una piccola tribù di figli naturali e adottivi.

Colpisce, nelle storie di questi tre narratori, il coraggio di andare fino in fondo. E la constatazione che, in fondo, quell'ideale giovanile e avventuroso di libertà si è trasformato in qualcosa di stabile, forte e, in un certo senso, quasi opposto. I due santoni hanno messo radici in una religione dominata dal rito, la ripetizione minuziosa e quotidiana di gesti e parole. Lo dimostra il primo racconto che inizie con le abluzioni rituali mattitine nel fiume e finisce di notte, di fronte al fuoco, col barbuto Baba vicentino che salmeggia la puja e versa incensi imitato dai suoi giovani discepoli. Nel terzo oltre agli incredibili riti ascetici, scopriamo come il barbuto Baba torinese, dopo vent'anni, riallaccia il rapporto con la mamma: le ultime immagini lo mostrano mentre la saluta affettuosamente al telefono. Infine, la metamorfosi ideologica apparentemente più drastica: Eris il trevigiano, nomade anarchico, fiero oppositore di ogni imposizione, denigratore dell'istituzione scolastica con toni da Ivan Illich, spiega che la sua vita da nomade ribelle (così diverso dall'italiano medio che ribelle non sarà mai), lo ha portato ad adottare “le vecchie leggi della vita”: il capo è il capo. Ci sono le pecore, il cane e il pastore: ognuno porta il suo peso e svolge il suo ruolo. Per evitare il caos, le pecore non devono avere potere decisionale. La sua storia finisce parlando della morte, dalla cui paura si sente definitivamente liberato: “Sento l'incredibile invulnerabilità che mi porta la coscienza che sto andando verso la morte”. Molto nietzscheano, verrebbe da dire. E valido solo nel suo avamposto da pioniere. Le ultime immagini lo mostrano mentre prende in braccio la figlia e balla.

Nell'ultimo capitolo del suo saggio, Benjamin si chiede “se il rapporto che il narratore ha con la sua materia, la vita umana, non sia anch'esso un rapporto artigianale. Se il suo compito non sia proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze (…) in modo solido, utile e irripetibile”. E conclude scrivendo: “Così considerato, il narratore entra fra i maestri e i saggi. (…) Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo”.

Se Benjamin ha ragione, i narratori di The Good Life rimangono dei narratori in potenza, che si sono limitati ad estrarre la materia della loro propria vita e farne qualcosa di solido per se stessi. Ma, forse le loro esperienze, per quanto irripetibili, hanno qualcosa di utile anche per noi: il coraggio e la determinazione di inventarsi la propria vita, come l'artigiano inventa e lavora la sua opera.

Infine, una presa di distanza: il fascino bovaristico di una vita diversa, l'esotismo dell'India, il romanticismo dell'avventura conferiscono molto glamour al lavoro di Ammaniti. Ma quanto sarebbe stato più utile, vero e tagliente, un documentario su “buone vite” inventate dentro il nostro vero mondo, tra vite precarie, disoccupazione giovanile, caste finanziarie e nuove povertà?

 

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