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L'enfance du mal

Regia di Olivier Coussemacq vedi scheda film

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La recensione su L'enfance du mal

di EightAndHalf
7 stelle

Una morbosità quasi tradizionalista e quindi sottopelle scivola nelle immagini silenti e sottili de ‘L’enfance du mal’ di Olivier Coussemacq. Figlio di un cinema francese e in generale europeo che pure tanto ha già detto sulla famiglia (borghese) e tanto bene ha saputo raccontare l’irruenza della giovinezza contro il temperamento del senno adulto, il film di Coussemacq si lascia guardare all’inizio sembrando non dire nulla di nuovo, fermo a apparenti conclusioni tranquillamente scolpite sui  muri di casa Van Eyck, dove si intrufola in maniera leggiadra e sottilmente inquietante la giovane Celine, che destabilizza, inizialmente infastidisce e infine trova il consenso emotivo e affettivo di entrambi i coniugi abitanti, dal loro canto nella possibilità di tenere con loro una “figlia” che non hanno mai avuto, né potuto avere. Ma mentre la fragilità della ragazza si contrappone in essa stessa al suo giovane acerbo corpo che tanto già provoca e sollecita il pensiero dell’uomo, allo stesso tempo la donna comincia lentamente a sentire un totale coinvolgimento per la situazione della ragazza, figlia di una carcerata e scappata dalla sua famiglia adottiva che pure non si sa se davvero la trattava male o no. Come se non bastasse, poi, Henry Van Eyck è un giudice fermo e risoluto, più volubile di quel che sembra ma attentissimo alla legge e debolmente restìo a scacciare la giovine che pure è accolta in quella casa illegalmente in mancanza di un atto di adozione. Leggi civili e leggi di natura dànno inizio così a una battaglia quiescente, placata dalle convenzioni e dalla normalità borghese, ma stimolata e accentuata dalla forte influenza che non si sa quanto volontariamente Celine riesce a imporre sui due coniugi. La fedeltà diventa illusione, la pseudo-paternità si trasforma in attrazione erotica e l’adulto diventa paradossalmente adolescente, con frequenti sbalzi d’umore e continui cambi di comportamento, il che immerge la narrazione in un’ambiguità non trascurabile che desta, più che inquietudine, nervosismo, come se ci trovassimo dentro un labirinto di cui non riusciamo, per ovvi motivi, a trovare l’uscita. Coussemacq ha dal canto suo l’abilità quasi subdola di mettere in scena contraddizioni, inversioni di rotta e psicologici twist, poiché riesce a incarnare tutti gli sviluppi all’interno di semplici azioni antispettacolari e all’interno di uno stile asciutto e distaccato che né si avvicina né si allontana d/ai personaggi, né parteggia né si fa imparziale, ma è in qualche modo disperso (come lo spettatore) come anche sorprendentemente controllato, come se anche la regia volesse assumere di per sé un portamento “rispettabile” di fronte a una storia di straordinaria follia. Ci sentiamo vicini alle azioni dei personaggi, ma non le condividiamo, poiché tutti sono particolarmente antipatici e si oppongono l’uno con l’altro disorientando e confondendo sempre di più le acque. E quando la storia, che si tinge di possibile vendetta o addirittura ricatto, sembrerebbe volgere verso il morboso, lo stile rimane lo stesso: asciutto, rigoroso, quasi coatto, costretto in un andamento che è perfettamente immerso nella falsa immobilità delle convenzioni che non sanno costringere, dal canto loro, le pulsioni e le furbizie umane. Storia di esseri viventi dispersi e sempre nel torto e nell’innocenza al contempo, L’enfance du mal stupisce per la sua apparente apatia e per la sua sorprendente capacità di avvincere senza far accadere niente di evidente, ma sviluppando le caratteristiche dei personaggi a livello quasi inconscio, paonazzo, fino a far implodere un enorme senso di anticatartica frustrazione. La conclusione, che aggiunge alla ricetta un forte pugno carico di sberleffo, chiude nella freddezza e nella (affascinante) inconsistenza una storia densa ma cava, intessuta da paradossi ma leggera come un velo, una storia che scivola via ma che ci fa più volte inciampare, distruggendo dal di dentro alcune nostre ben salde certezze in maniera tutt’altro che banale. Quando osare non vuol dire scandalizzare né provocare.

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