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Bypass

Regia di Duane Hopkins vedi scheda film

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La recensione su Bypass

di OGM
6 stelle

Fuori fuoco. L’obiettivo segue la storia da vicino, si attacca avidamente ai volti, agli oggetti, ai ritagli di scena colti al volo, spiati di traverso. Il racconto cerca l’intensità nelle pieghe di una vicenda che non si fa capire fino in fondo, perché è ostaggio di una follia segreta, trattenuta dal pudore, dal dovere degli affetti, dalla paura di guardare in faccia la realtà. La visione si compone di lampi allucinati, parla il linguaggio spezzettato degli attimi inquadrati secondo l’estro del momento. La storia non vuole svelarsi per intero: esita, come i suoi personaggi, partecipa ai loro sotterfugi, e così a noi non rimane che seguirla attraverso il buco della serratura. Le proporzioni sballano, al di là di quella fessura, i dettagli si deformano, le priorità si sovvertono, e sono futili dettagli a scalzare dal trono le cose veramente importanti. Il male si lascia solo intuire, mentre si nasconde, mentre ci volta le spalle. Succede sotto le lenzuola di un letto disfatto dalla sofferenza; nello specchio, si intravede solo la punta di un piede. E succede anche quando dei fantasmi colpevoli si allontanano dal luogo del misfatto. Tim Lockett è il protagonista di questo vertiginoso gioco a rimpiattino, nel quale il quadro d’insieme si estende oltre il bordo del fotogramma, risultando sfuggente e mai perfettamente centrato.  Forse lo sbandamento è d’obbligo, quando il discorso riguarda la vita di un adolescente senza genitori, al quale, in assenza del fratello maggiore, tocca fare da padre alla sorella più piccola. Di mezzo ci sono il crimine, la malattia, la mancanza di soldi, la necessità di accollarsi responsabilità troppo pesanti. Davanti alla macchina da presa di Duane Hopkins, il disagio si trasforma in un dinamismo convulso, incerto ed amaro, inafferrabile come l’orizzonte di chi non sa che pesci pigliare, eppure deve muoversi, in un modo o nell’altro. L’attivismo della disperazione si fonde con la fremente intensità delle emozioni acerbe, espressioni di una ribellione che teme la luce del sole, perché è proibita, e condotta da mani inesperte. Di questo film si potrebbe apprezzare la libertà con cui la narrazione vaga all’interno dell’immagine, lasciandosi incantare dalle estemporanee suggestioni ottiche, dai collage cromatici, dalle figure che invadono il campo per creare abnormi allusioni alle verità invisibili. Questo approccio è applicato con coerenza, scrupolo e sincera passione, nello strenuo tentativo di fondere drammaticità ed estetica. Tuttavia la ripetitività dello schema finisce per raffreddare l’effetto complessivo, irrigidito  dalla continua cura del ritratto come spunto contemplativo, definito dall’indeterminatezza del chiaroscuro, dalla ricercatezza delle angolazioni oblique, dalla ritmicità degli elementi geometrici, o dall’ermeticità di certi riferimenti simbolici. L’esperimento può dirsi tecnicamente riuscito, ed è solo per un eccesso di attenzione alla forma se la sostanza è rimasta, carica di energia giovane e inquieta, a proiettare le sue ombre dietro un vetro appannato. 

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