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Shango, la pistola infallibile

Regia di Edoardo Mulargia vedi scheda film

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La recensione su Shango, la pistola infallibile

di scapigliato
10 stelle

Bellissimo e oscuro film di Eduardo Mulargia, uno degli autori meno compresi del western italiano di produzione modesta. Primo degli unici due western scritti dall’attore italo-brasiliano Anthony Steffen, “Shango” è un piccolo capolavoro di buona artigianalità e creatività artistica. Girato negli esterni laziali in pieno inverno il film rappresenta con toni atipici la frontiera messicana, gettando una luce sinistra ad illuminare la disperazione e la fatalità che ammantano il film. Ma non solo. A pervadere l’intera pellicola è tutta una sensazione di incubo, di favola nera. Sia l’iconografia generale, monti morbidi e verdi, foreste di latifoglie tappezzate di foglie cadute, villaggi deserti, infangati e freddi, boschi fitti dai rami secchi, tipica della nostra zona centro-meridionale, sia la messa in scena sì povera, ma volutamente scarna (forse per necessità, ma sicuramente virtuosa), creano un’atmosfera ottenebrata, irreale, gotica diremmo per capirci meglio. Ambientare il selvaggio ed arido West nelle locations italiane, soprattutto in inverno, permette di risemantizzarlo iconograficamente e di conseguenza dargli un nuovo valore letterario aggiunto. Nelle nostre terre centro-appenniniche non ci stanno male storie di vampiri e di lupi mannari, di mostri, fantasmi e misteri medievali. L’ambiente si presta alla mestizia delle storie, il cui incedere agonico è determinato dall’intorno, così come avviene proprio in “Shango”. Anche il racconto, privo qua e là di nessi logici, vuoi coscientemente o incoscientemente, permette di rileggere il film di Mulargia da un’ottica diversa, di bizzarria al servizio dell’incidenza visiva più che di quella narrativa. Come nota bene il Marco Giusti non si può parlare solo esclusivamente di povertà di scrittura, bensì di delirio narrativo funzionale all’intenzione di base del film.
Già l’incipit ha la cadenza di un horror alla vecchia maniera. Scandito dai rintocchi macabri della bella partitura di Gianfranco Di Stefano vediamo il nostro amato Anthony Steffen ingabbiato in una piccolissima gabbia di legno e appeso ad un albero a penzoloni. In un poblado messicano che per il momento non ci è permesso vedere nella sua totalità, altro espediente per confondere ed inquietare lo spettatore, si susseguono dei fatti tra loro poco ricollegabili e comprensibili: dei banditi che attanagliano il paesino da mesi obbligano un vecchio a sistemare il telegrafo per avere notizie della Guerra di Secessione in corso; in seguito il vecchio verrà ucciso misteriosamente da un tenente sudista dalla mise macabra; i banditi messicani si chiederanno chi è stato; il tenente libererà Steffen per poi cercare di ucciderlo e alla fine il presunto cadavere del prigioniero sparirà sotto lo sgomento dei sudisti e dei banditi loro alleati. Un intreccio infatti poco chiaro, ma che aiuta a confondere lo spettatore e ad annebbiare maggiormente il film con quello che potremmo chiamare un effetto “flou narrativo”. Da questo punto in avanti, Shango redivivo sembra sempre di più uno spettro trattenuto a forza sulla terra per concludere una missione. L’aurea soprannaturale del protagonista tornerà l’anno dopo con “Django il Bastardo” sempre scritto ed interpretato da Steffen e diretto sempre da Mulargia. Film che ha un culto maggiore, ma che deriva idealmente da “Shango”, che andrebbe rivalutato. Le scene sono ben girate, e il passo mortifero che le accompagna stabilisce la convenzione gotica necessaria per capire il film nella sua essenza. Sparatorie iperbolizzate dalla natura spettrale di Shango che ha davvero una mira infallibile e secca in un colpo anche sei banditi alla volta. Ma la violenza, presente lungo l’arco di tutto il film, è una violenza silenziosa che nei suoi momenti più delicati, come la morte dei due ragazzini, vuole restare sullo sfondo e non fare baccano. Il risultato è la rappresentazione di una sofferenza, di una morte e di un sopruso che pervadono la vicenda di quei poveri messicani. Questi, prima aiutano Shango, poi diffidano di lui, poi lo aiutano a combattere i banditi per poi non ascoltarlo più e infine prenderne le difese.
Se Anthony Steffen a detta dei registi che lo diressero era un pessimo attore che in più se la tirava, a detta del sottoscritto resta uno dei volti maggiori del western all’italiana. Lui e Peter Lee Lawrence differiscono da nomi quali Clint Eastwood, Franco Nero, Giuliano Gemma, Gianni Garko, Terence Hill e Bud Spencer perchè erano due attori meno duttili. Il primo portò avanti anche nei western più leggeri quel suo viso triste che invece ben serviva a tuttaltro tipo di storie, il secondo invece grazie alla sua bellezza giovane e radiosa era il giovane ribelle dal destino fatale. Entrambi sono stati i più grandi protagonisti di tanti spagowestern girati anche con pochi mezzi e scarsi risultati. Lavorarono insieme in soli due film, entrambi tragici, uno successivo all’altro: “Garringo” nel 1969 e “Arriva Sabáta!” nel 1970. Ma il grande volto di Steffen, qui in uno dei suoi ruoli più riusciti, è storicamente legato a quello dell’amico e compagno regolare di set Eduardo Fajardo. I due insieme girarono ben 13 film, di cui 9 western (mentre con Sancho, suo altro grande amico ne girò solo 4). E qui, il sadico generale di “Django” è al suo apice. Mai visto Fajardo così crudele, folle e violento. Addirittura ha un rapido sussulto pedofilo, che sublimerà sparando alle spalle il ragazzino in fuga. Il Maggiore si presenta così come un personaggio fosco, ambiguo, ma soprattutto luciferino. Veste la tipica divisa grigia dei sudisti, ma la completa insolitamente con un mantello e un cappellaccio neri che fanno molto assassino gotico. Con tanto di barba, testa arruffata, laido e doppiogiochista, Fajardo crea un personaggio che vorremmo sempre in scena a duellare con la sua nemesi. Sì, perchè di nemesi si tratta. Shango sarà colui che porterà la morte a Fajardo, e Fajardo stesso cercherà più e più volte di scontrarsi con il suo rivale, quasi a desiderarlo oltre ogni cosa, e non può quindi passare inosservato il fatto, abbastanza narrativamente confuso, che è proprio Fajardo a liberare dalla sua prigione il ranger Shango che avrà poi come missione la sua morte. Così non è poi troppo assurdo rileggere la storia da un altro punto di vista, non quello di Steffen che deve fare tutto ciò che può per fermare i soprusi di banditi e sudisti, bensì quello del maggiore interpretato da Fajardo che, forse cosciente della sua follia o più semplicemente spinto dal destino, libera la Morte dalla sua tana per poterlo così uccidere. Il finale è folle, delirante e allucinato. Ma è un’allucinazione che coinvolge il solo maggiore sudista, mentre a inizio film era Shango ad avere allucinazioni tali da squoterlo nell’animo e del fisico. Ma il film non è solo una discesa infernale in un pandemonio di spietati e tragici individui (il bandito Martinez interpretato da Maurice Poli non è da meno), ma anche un’ennessima trattazione dei temi di libertà che l’ambientazione messicana rendeva possibili. Bella, in questo senso, la frase dello spettrale Shango quando dice ad Attilio Dottesio, il capopolo messicano, che “Quando l’uomo porta con sé la libertà, gli dei sono impotenti”. Insolito detto da uno che porta proprio il nome di un dio africano Yoruba. Lo Shango infatti è la divinità del tuono e delle tempeste. Originariamente sovrano della terra, Shango fu divinizzato dopo essere fuggito dai nemici ed essersi impiccato ad un albero. I suoi seguaci pregarono che il fuoco distruggesse i suoi avversari e quando il fuoco arrivò effettivamente ai nemici di Shango, si convinsero che egli era veramente asceso al cielo, diventando una divinità. Sembra una coincidenza o una forzatura della mia interpretazione, ma il dio africano ci becca in non poche questioni con il ranger di Anthony Steffen.

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