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In the Shadow

Regia di David Ondricek vedi scheda film

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La recensione su In the Shadow

di OGM
8 stelle

Un noir può anche essere testimonianza storica. E denuncia delle ingiustizie commesse da un regime autoritario. Come nella Cecoslovacchia del 1953, in piena crisi economica, e con la minaccia di una riforma monetaria destinata a creare ancora maggiore povertà in una popolazione appena uscita da un conflitto devastante. Ma la battaglia non è solo quella combattuta da tutti, alla luce del sole, per sopravvivere. Le guerre più pericolose sono riservate a pochi, e avvengono nell’ombra, dietro le quinte della quotidianità della gente, nei luoghi segreti dove i potenti ordiscono i loro infami complotti. L’ispettore di polizia Jarda Hakl è impegnato in una difficile caccia ai fantasmi che producono verità su misura, quelle che consentono di continuare a mostrarsi forti, governando con lo strumento del terrore. Un piccolo uomo, onesto e tenace, coraggioso e straordinariamente intuitivo, compie da solo quella missione sotterranea, nella quale è il segugio ad essere costantemente braccato dalle belve. La sua indagine è tanto minuziosa quanto clandestina, svolta con mezzi scarsi ed ostacolata in ogni modo. È un brancolare nel buio  affrontato con semplicità e pazienza, con l’eroismo nascosto che caratterizza i periodi di pace forzata, nei quali le armi sparano col silenziatore. Jarda è il protagonista di un caso intricato in cui crimine, politica e spionaggio si intrecciano sotto il segno dell’inganno ai danni dei più deboli. Un giallo in cui è vietato parlare: per stare al gioco bisogna mentire, fingere e tacere, perché, su entrambi i fronti, ogni passo falso può costare la vita. La trama è quella di una rete che traccia il complesso sistema delle connivenze, ingabbiando lo sviluppo di una nazione nella prigione dei dogmi, dei pregiudizi, delle soluzioni preconfezionate. Dall’alto si impone alla gente di credere, escludendo il diritto a riflettere criticamente su ciò che accade. Il giudizio deve essere condizionato da un’evidenza costruita ad hoc, quella fabbrica di conclusioni scontate che Jarda si impegna a scardinare. Per raggiungere l’obiettivo, bisogna agire in fretta, ma mantenendo un atteggiamento poco appariscente, che non lasci trapelare i propri pensieri.  L’innocenza della normalità è la facciata anonima che fa da schermo ad un piano “eversivo”, plasmato nel senso del dovere e intriso di speranza in un futuro migliore. Un domani più limpido per quel figlio a cui bisogna insegnare a fare a pugni, perché nella vita non si sa mai. Un mondo più sicuro per quella moglie che non vuole rinunciare ai propri sogni di ragazza, anche se i tempi sono duri. Il racconto è imprigionato nell’incertezza, mentre c’è qualcosa, in sottofondo, che fa palpitare il cuore, per la paura di essere aggrediti o per l’ansia di sapere come andrà a finire. A volte le cose sono diverse da quelle che sembrano: è una frase ripetuta più volte nel film.  Un comune modo di dire che fornisce, a questo racconto ben calato nella realtà europea postbellica, una chiave di lettura generale, svincolata dal tempo e dalla particolare situazione internazionale. Il significato dell’opera punta al di là delle questioni legate al comunismo di stampo sovietico, al nazismo, all’antisemitismo, per  indicare la natura fragile e indistinta del concetto di identità. I ruoli vengono spesso volutamente occultati e confusi, e le fasi di transizione si prestano più che mai a questo spettacolo di illusionismo teatrale. Per scoprire chi siamo dobbiamo guardare la terra intorno ai nostri piedi, e le immediate conseguenze delle nostre percezioni: tutto il resto è uno spettacolo che, malignamente, abbaglia e uccide.

 

Ve stinu ha concorso per la Repubblica Ceca al Premio Oscar 2013 per il miglior film straniero. 

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