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Viva la libertà

Regia di Roberto Andò vedi scheda film

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La recensione su Viva la libertà

di LorCio
8 stelle

Bisogna riconoscere al tanto vituperato cinema italiano non soltanto le buone idee ma anche l’altrettanto buona messinscena di quelle buone idee. Molto spesso le due cose non coincidono e le buone intenzioni non vanno oltre loro stesse, così come anche delle dignitose messe in scena non vanno a braccetto con idee robuste. Viva la libertà, al di là dei suoi limiti, è un film notevole e stimabile. Roberto Andò, partendo da un proprio romanzo (Premio Campiello per l’opera prima), compie il definitivo salto di qualità di una carriera spesso poco all’altezza delle ambizioni dei suoi soggetti e per di più riesce a gettare il cuore oltre l’ostacolo sporcandosi le mani con un genere complicato e tendente alla semplificazione e alla superficialità: il cinema sulla politica, oltretutto in quanto commedia surreale.

 

Nella nostra tradizione abbiamo molte commedie sulla politica, dal datato e al contempo profetico Gli onorevoli allo sporcaccione e, anche lui, premonitore All’onorevole piacciono le donne fino all’irrisolto Commediasexi ma, attenzione, passando per La pecora nera, semidimenticato film di Luciano Salce in cui il solito istrione Gassman si sdoppiava nelle parti di due gemelli, l’uno inflessibile politico e l’altro scaltro ed arrivista. Andò recupera pari pari l’idea del doppio, si pone su un altro piano rispetto agli ultimi due grandi film politici italiani (Il caimano di Nanni Moretti e Il divo di Paolo Sorrentino), costruisce una storia sotto elezioni (l’uscita in sala in questi giorni è strategica e beffarda) in cui il pazzo filosofo Giovanni Ernani prende il posto del latitante e depresso gemello Enrico Oliveri, leader del principale partito d’opposizione in drammatica emorragia di voti.

 

Il gioco è quanto mai gustoso perché dietro i personaggi si celano reali protagonisti del centrosinistra italiano e nessuno può negare che dietro i baffetti e l’astuzia di Andrea Renzi ci sia l’ombra di D’Alema o che il cognome del personaggio dell’eccellente Valerio Mastandrea si celi quello di Goffredo Bettini, kingmaker della roma veltroniana, o che lo stesso protagonista (Enrico) sia una proiezione ideale di Veltroni, dalla passione per il cinema agli occhialetti (ma la rassegnazione, la voglia di non vincere e il tormento appartengono a mille esponenti della sinistra nostrana). È forse un aspetto che, come dire, fa soltanto colore e serve per creare maggiori connessioni con la realtà circostante, ma è forse uno dei principali divertimenti di quella parte del pubblico che più conosce i turbamenti del centrosinistra.

 

Al di là di queste considerazioni, c’è da dire che il film riesce nell’intento di far divertire e di far riflettere senza paraocchi e senza esclusioni di colpi. Si può leggere in vari modi: un partito talmente in crisi che si affida ad un pazzo (malgrado nessuno sappia la verità della messinscena, a parte Mastandrea, la moglie di Oliveri interpretata dalla bravissima Michela Cescon e, in un secondo momento, il grande vecchio Gianrico Tedeschi nei panni di un anziano padre spirituale di sinistra); un Paese senza più la possibilità della speranza che dà fiducia ad un uomo politico dall’eloquio elegante, dalla cultura sterminata e dall’empatica simpatia ma privo di proposte concrete legate all’economia reale (ma questo sottolinea la dimensione fiabesca ed allegorico della storia); l’impossibilità per un uomo pubblico di emanciparsi dalla propria esperienza pubblica; l’inadeguatezza della sinistra e dei suoi esponenti nel rispondere alle esigenze di un Paese incarognito e desideroso di sognare.

 

Il personaggio di Giovanni catalizza evidentemente l’attenzione del resto dei personaggi (a causa della lampante differenza tra l’Enrico triste prima della “malattia” e l’Enrico vitale dopo la “malattia”) e del pubblico stesso, per quel suo camminare costantemente sul filo della follia, tra il nascondino in mezzo ai mappamondi di chapliniana memoria assieme al presidente della Repubblica (l’esimio Massimo De Francovich) e il tango a porte chiuse con l’epigona della cancelliera Merkel passando per gli sguardi in ascensore con Anna Bonaiuto (che richiama in qualche modo ad Anna Finocchiaro): è un ruolo che un enorme Toni Servillo disegna con finissima leggerezza, raggiungendo il sublime non tanto nelle sequenze parlate quanto nel liberatorio e memorabile ballo alla casa di cura.

 

D’altro canto, lo stesso Servillo conferisce ad Enrico una gamma di emozioni minimaliste e tormentate e suggerisce elementi tali da rendere a tratti la sua esperienza la tragedia di un uomo ridicolo. Alla fine la politica è solo un velo che nasconde le conseguenze dell’amore e l’uno si confonde con l’altro in un finale di partita a carte coperte che sfocia nel grottesco e nell’inquietante. Un film sorprendente e che lascia volontariamente turbati, denso di battute eccezionali e, finalmente, completo e complesso.

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