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Where the Fire Burns

Regia di Ismail Günes vedi scheda film

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La recensione su Where the Fire Burns

di OGM
8 stelle

Fammi volare, papà. La terra è troppo pesante, per chi, come me, immagina di toccare con la mano i gabbiani di passaggio. Quelli che sembrano sospesi nell’azzurro nel cielo, anche se forse sono in fondo al mare. Tu adesso mi porti via con te, ma ti dovrai fermare. E sarò io ad indicarti la meta del nostro viaggio. Anche se tu non vuoi. Anche se credi che Dio stia dalla tua parte.

Questa è una storia impossibile. Un uomo e sua figlia la vivono insieme, senza davvero conoscerla, senza sapere quello che fanno, quello che stanno provando, quello che non riescono a dirsi. Ci sono verità che vanno cancellate. E insieme ad esse, anche tutte le solite menzogne di comodo. Nella Turchia dei giorni nostri c’è ancora qualcosa che teme la luce del sole, che si ribella al libero amore, che circonda la donna di mille profani tabù. Sotto quel velo va a rintanarsi una barbarie che supera ogni pudore, anche se proprio nella vergogna trova il proprio pretesto. Uccidere una ragazza perché ha disonorato la famiglia. Perché è minorenne e incinta. Perché non dice chi sia il padre. Osman è intenzionato  a farlo. Ha accuratamente preparato il delitto, e con la complicità della moglie ha attirato la giovane Ayse in un vile tranello. Sembrava facile, compiere il proprio dovere. Ma poi, strada facendo, si scopre che quell’allucinante proposito omicida non elimina la dolce pulsazione della vita, la tenera fragilità delle creature, l’infinita dolcezza di uno sguardo innocente. Anche se dentro l’anima c’è il buio, fuori continua  a splendere il sole, che si riflette sulle rocce bianche, sulla superficie dell’acqua increspata, sulla gente che non sa, su un mondo che non smette di essere gioiosamente folle, banalmente affidato all’istinto di conservazione, e naturalmente incline alla futilità. La turista tedesca in camper fa un tira e molla con il fidanzato. La serratura di un cofano si blocca. Un camion sbaglia una manovra. La realtà continua la sua danza senza senso, priva di importanza, rimescolando cose così, che sono passeggere e si dimenticano subito. Ce ne sono invece altre, di cui non si può parlare, che rimangono nascoste, come pensieri calmi e profondi, ad attendere che si compiano i grandi momenti fatali, gli epocali eroismi di chi si crede difensore di valori perduti. Il racconto vive dell’eterno rinvio di un epilogo che proprio non vuole compiersi, come se il volto mediocre della quotidianità insistesse nella sua invadenza, creando un attrito che erode poco a poco la volontà di chi si ritiene forte, investito di una missione speciale, intenzionato a non lasciarsi piegare. Ma la brutalità è friabile, e si consuma facilmente. Accade con la saltellante gradualità di un perfido motteggio del destino: una burla che utilizza in mille modi la normalità come antidoto contro il disumano potere dell’assurdo. Questa è, infatti, anche una storia di veleni, chimici e morali, concreti o ideali, di sostanze che in silenzio intossicano il cuore, mentre vorrebbero curarne i mali. Ismail Gunes sa combinare azione e reazione in un composto che induce la morte tramite una salvifica agonia, e porta la chiarezza attraverso le nebbie del sogno, del flashback, del delirio. È una medicina che desta la coscienza mettendo a dormire la finzione, ponendo fine all’illusione che spetti ad altri – alle leggi divine, alle regole sociali, alle alchimie della fortuna – decidere l’esito finale delle nostre azioni. Osman e Ayse partono da casa con le rispettive certezze, ma, prima di arrivare a destinazione, si renderanno conto di non potersi esimere dall’onere di scegliere: di dire sì o no a ciò che, inesorabilmente, li aspetta.

 

 

Atesin dustugu yer ha concorso, per la Turchia, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero. 

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