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Imagine

Regia di Andrzej Jakimowski vedi scheda film

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La recensione su Imagine

di OGM
8 stelle

Immagina, puoi. Non è solo uno slogan commerciale. È la sintesi ideale dello spirito di questo film: la poesia dell’handicap che, con la forza della mente, si apre per estendersi in tutta libertà verso l’infinito.  E, magari, riesce anche a modificare la realtà, ricreandola ad immagine e somiglianza delle proprie individuali fantasie. Fingere è imparare ad essere. È provare a crescere dentro i propri limiti, oltre la ridotta capienza della nostra fisicità imperfetta. Chi non vede, senta. Chi non sente, inventi. Ian non ha gli occhi. Dentro le orbite porta due palle di vetro con l’iride azzurro, che muove come se potesse davvero guardarsi intorno. E attraversa la città da solo,  senza nemmeno l’aiuto di un bastone. Forse è un eroe o un grande artista, o forse è solo un impostore, ma in ogni caso sembra abbia davvero qualcosa di straordinario da insegnare ai suoi allievi: bambini e ragazzi ciechi, che costituiscono la sua classe, in un istituto privato di Lisbona. Ian mostra loro come sia possibile percepire il mondo anche senza poterlo toccare, né poterne distinguere a distanza le forme. L’aria è piena del respiro delle cose, e basta concentrarsi un attimo per coglierlo, e mettersi in sintonia con esso, fino a riconoscere i tratti dell’essere che l’ha generato: una motocicletta appoggiata al muro di un cortile, o un ufficiale che si rade, di notte, a bordo di una nave. Per la ragione questa facoltà appartiene al regno delle favole, e propagandarla è senza dubbio diseducativo  e pericoloso. Ma il buio può essere sconfitto soltanto popolandolo di sogni belli, originali ed importanti, così potenti da costituire una nuova verità, alla quale appoggiarsi per andare avanti. Procedere a tastoni può allora diventare un modo per dosare l’attenzione,  indirizzandola verso ogni piccolo dettaglio,  soprattutto quelli che sfuggono a chi vede.  Ian vive di queste  magiche esitazioni, delle insicurezze che lo rendono sensibile e romantico, come degli errori che ne svelano la profonda e tormentata umanità. Quel giovane è un traghettatore di anime: le trascina via dalle sponde tranquille di un ambiente protetto, per condurle con sé attraverso un oceano increspato di emozioni, che procurano un inatteso benessere, ma possono anche fare tanto male. Grazie a lui, Eva scopre la capacità di amare; però, nello stesso tempo, si accorge di quanto possa essere dolorosa la solitudine.  Il film di Andrzej Jakimowski sfuma i contorni taglienti del paradosso con un accento ironico dai tratti vagamente clauneschi, in cui l’assurdità e la goffaggine si sciolgono, teatralmente, in un mare di infantile dolcezza. Ian cammina schioccando la lingua e battendo i tacchi sull’asfalto: quel ticchettio scandisce il ritmo di una filastrocca interiore, al cui suono danzano gli oggetti inesistenti, le storie mai successe, i desideri che rimarranno inesauditi. E in quel ballo surreale tutto è più autentico della banalità dell’evidenza, che induce inutilmente alla prudenza, e crudelmente chiude la visuale sull’orizzonte del pensiero. 

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